La questione dell'uso pervasivo degli
strumenti informatici va molto oltre la questione della
matematica e del suo apprendimento.
Vivere in un mondo sempre più lontano dalla
natura (luce, forme, odori, calore, sensazioni) ci allontana da noi stessi,
spezzando la nostra straordinaria esperienza mentale e corporea. Come ha detto
Hans-Georg Hadamer, dalla contemplazione del fuoco sono sorte probabilmente le
prime domande dell'essere umano. Lo stesso Gadamer afferma che la scrittura è
la svolta nel pensiero umano, molto di più dell'avvento del computer. Ritorno
sul fatto che il computer, come indica il suo nome, "calcola", nel
senso di eseguire a velocità impressionante procedure elementari nelle quali
l'essere umano riesce a tradurre le sue idee, la sua intenzionalità, il suo
senso estetico, e così via, piegando queste capacità alle misere condizioni
delle macchine. I nostri figli raggiungeranno sempre nuovi traguardi nello
sfruttamento delle macchine, e ciò soprattutto se continuiamo a coltivare in
loro le idee, l'intenzionalità, la parola, il senso estetico, il ragionamento
matematico e così via.
Se il nostro essere nel mondo avviene quasi
interamente attraverso strumenti digitali, della nostra esperienza corporea
rimane soltanto la visione e l'ascolto, e queste due facoltà rivolte solo a
immagini e suoni digitalizzati, ossia già elaborate: è la distanza che separa
essere nel mondo rispetto a essere nella sala cinematografica vedendo un film
in 3D, oppure ascoltare la musica con gli auricolari rispetto a ascoltare la
voce, uno strumento, un'orchestra. Mi chiedo quindi, pensando ai bambini, vogliamo
davvero ridurre in questo modo drastico l'esperienza infantile di scoperta del me e del non me? (uso le parole del grande studioso Édouard Séguin, che ci
ha scoperto l'umanità anche di chi un tempo ci appariva quasi come sprovvisto
di ciò che rende umani)
Aggiungo che quella presunta capacità di
usare i nuovi strumenti è solo apparenza: il neonato si entusiasma se un
oggetto reagisce a qualsiasi suo toccare o sfiorare (come si entusiasma con il
gattino in casa); il bambino o ragazzo impara velocemente regole meccaniche di
uso, ma appena il computer non risponde, non riesce a immaginare strategie per
risolvere perché non ne conosce la logica interna: la può imparare, appunto
questo sarebbe iniziare seriamente all'informatica a scuola, senza pretese di
un "pensiero computazionale" che sarebbe una nuova frontiera del
pensiero umano. Il ragazzo o giovane si immerge nella rete, manifestando la
capacità dell'essere umano di "rendersi uguale", di
"immedesimarsi", senza discernimento: ma se non so cosa è un libro e
cosa è un giornale, cosa porta in sé un dipinto o un edificio, allora le parole
accumulate in miliardi di pagine web e le immagini di cose, persone e luoghi
che scorrono nello schermo si presentano a me come una massa informe in cui non
ho punti di riferimento, una navigazione in mare aperto senza neanche le stelle
per orientarsi.
Sotto questa mitologia del pensiero computazionale cova l'idea che quando si usano strumenti informatici si pensa in modo diverso... questa idea dei “nativi digitali”. Questo va oltre la matematica. Per quanto la riguarda, non sono gli strumenti informatici che fanno imparare la matematica, ma è imparare la matematica che prepara a padroneggiare, sfruttare e far avanzare il mondo digitale.
La questione delle tecnologie informatiche,
per essere considerata seriamente, richiede di dilatare lo sguardo molto oltre
queste poche considerazioni. Accostarsi al dialogo su questi temi fra Ricoeur e
Changeux (La natura e la regola. Alle radici delpensiero, Raffaello Cortina Editore, 1999) ci
da un'idea del modo povero e raffazzonato con cui si tratta spesso, e ci indica
invece come riflettere su di esso in modo serio. Non è un compito facile ma ne
vale la pena
Potete leggere l'intervista completa su Emmeciquadro qui