mercoledì 29 ottobre 2014

Un nuovo video didattico

Una lezione sulla meccanica aristotelica (può fornire materiale da usare in classe, ovviamente al liceo, ma anche nelle scuole medie, con opportune semplificazioni)

mercoledì 8 ottobre 2014

Bestiario matematico (serie II).4

L'UCAS (Ufficio Complicazione Affari Semplici) in azione:

Chiunque abbia avuto la ventura di sentir parlare di insiemi in un discreto corso universitario sa che questo concetto può essere introdotto in tre modi:
a) cercando di definirlo in termini contenutistici, il che pone di fronte a difficilissimi problemi affrontabili al livello di un corso universitario specializzato di logica-matematica o filosofia della matematica e che comunque sono aperti;
b) evitando ogni definizione contenutistica e definendo gli insiemi in modo assiomatico, per esempio con l’assiomatica di Zermelo-Frankel o di Bernays-von Neumann, il che tuttavia mette su una strada assai difficile dal punto di vista della logica-matematica;
c) evitare entrambi questi approcci considerando il concetto di insieme da un punto di vista intuitivo, e cioè come sinonimo dei termini del linguaggio comune “aggregato”, “collezione”, ecc. e occupandosi delle regole operative (unione, intersezione, ecc.) di questi enti assegnati secondo il senso comune.
È quest'ultimo l’approccio seguito in tutti i corsi universitari di matematica, figuriamoci se non dovrebbe essere quello seguito a scuola.
E invece no.
L’UCAS (Ufficio Complicazione Affari Semplici) è sempre attivo, notte e giorno, e molti libri di testo scolastici oltre che lezioni in rete (non li citiamo perché purtroppo sono troppi) si affannano a dare una definizione di cos’è un insieme.
In uno di questi “luoghi” si “definisce” un insieme come un aggregato di oggetti definiti da una proprietà e, per giunta, da una proprietà “oggettiva”, perché l’insieme delle mele grandi sarebbe un concetto opinabile e quindi non definibile in modo univoco. Inutile dire che cosa resti dopo una simile definizione. Se considero l’insieme di tutte le mele e di tutte le pere, non posso far altro che definire come proprietà che definisce l’insieme l’essere mela o pera, altrimenti non si vede perché non dovrebbero starvi anche le ciliegie. Pura tautologia. Se definisco un insieme come quello delle mele marce, l’oggettività non è garantita perché per taluno una mela molto matura non può essere definita marcia. Inoltre, anche in contesto matematico, infinità di insiemi non sarebbero tali: l’insieme composto da 2 e 71 non sarebbe un insieme (questi numeri non sono legati da alcuna proprietà comune) e persino l’insieme vuoto, in quanto intersezione di insiemi privi di proprietà comuni, come i pari e i dispari, non sarebbe un insieme…
Un gruppo di autori di queste sottili definizioni – adatte a rimpinzare la mente dei poveri studenti di concetti inutili oltre che sbagliati, e ad addestrarli a odiare la matematica – ha risposto risentito alle nostre osservazioni osservando che l'insieme delle pere e delle mele è certamente un insieme perché, per definizione, questa è una proprietà caratteristica, in quanto pere e mele sono due sottoinsiemi (di che?), con proprietà caratteristiche oggettive la cui "unione" genera l'insieme citato. Già, ma quella sarebbe la proprietà caratteristica che definisce l'insieme unione? Che deve esservi, altrimenti non sarebbe un insieme e che non può essere "eredità" delle precedenti altrimenti siamo alla ridicola tautologia e a una perdita di tempo e neuroni. Non certamente quella di essere dei frutti, altrimenti perché non le ciliegie, come dicevamo? Ma, a ben vedere, non esiste neppure quella degli insiemi originari: essere frutta è troppo generico ed esser mele è tautologico. Sarebbe come dire che l'insieme delle mele è quell'insieme i cui elementi sono mele. Ma, per favore... I nostri interlocutori aggiungono che sarebbe importante che il criterio sia oggettivo, mentre "l'insieme delle mele piccole e delle pere piccole” non è un insieme in quanto è soggettivo considerare una mela piccola o una mela grande. L'obiezione è evidente, se ne possono fare a centinaia e comunque mettersi sulla strada di dover spiegare il concetto di "oggettività" ai bambini", uno dei più complessi della filosofia... Tanti auguri... I poveri bambini, o ragazzini, che potrebbero accedere a un'idea semplice – e controversa soltanto a livelli superiori – vengono rigettati su concetti suscettibili di mille controesempi o di una nozione di grande difficoltà. Comunque, col risultato sbagliatissimo di escludere infinità di insiemi dal concetto di insieme.
I nostri interlocutori dicono di aver tratto queste idee da libri adottati da centinaia di scuola. Una tragedia. Non ne dubitiamo, purtroppo, come non dubitiamo che ogni autori scaricherà la colpa sul "vicino".
Non sarebbe piuttosto il caso di ragionare con la propria testa e studiando libri seri, facendosi idee serie? Si constaterbbe che qualsiasi manuale serio di algebra o di matematica che ricorra alla teoria degli insieme propone l'approccio c).
Noi proponiamo come primo spunto le osservazione di un celebre matematico francese nel suo manuale di algebra, Roger Godement:
«In certi manuali di algebra in uso nei liceo si trovano frasi del tipo: «dicesi insieme ogni collezione di oggetti della stessa natura». La prima obiezione a questa "definizione" è che riduce la parola insieme alla parola collezione: i due termini sono sinonimi d quindi trattasi di un evidente calembour. La seconda obiezione è che gli autori dei manuali in questione non provano alcuna difficoltà a formare un insieme riunendo due insiemi qualsiasi, per esempio di mele e pere: ne segue che mele e pere sono oggetti della stessa natura! Questo esempio mostra a quali assurdità si arriva tentando per ragioni "pedagogiche" di dare della parola insieme una definizione elementare. Sarebbe preferibile dire che si considera la nozione di insieme come una nozione primitiva che non si definisce (e che chiunque capisce intuitivamente) e mediante la quale si possono costruire relazioni su cui si può ragionare logicamente».

mercoledì 17 settembre 2014

La leggenda dei nativi digitali che sarebbero più smart è soltanto una bufala

Mio padre ottenne la patente a cinquant’anni: inutile dire che non guidò mai bene, non fu mai un “nativo automobilistico”. La faccenda dei “nativi digitali” è simile: se s’inizia a trafficare con computer, tablet e smartphone molto presto si acquisisce una familiarità che è preclusa agli “anziani”. Ma è proprio così? Nei fatti, l’analogia è fallace, perché la guida di un’automobile è un fatto prevalentemente fisico, che coinvolge azioni assai elementari e limitate in numero. Al contrario, gli apparati digitali sono altamente stratificati e offrono un’enorme molteplicità di attività che è tutt’altro che facile sfruttare fino in fondo. Chi osservi il comportamento dei “nativi digitali” che agiscono solo sulla base dell’intuizione si renderà facilmente conto che, in realtà, usano una minima parte delle facoltà degli apparecchi, e si limitano per lo più a trafficare con la messaggeria telefonica, con videogiochi semplici, non hanno la minima idea di come sfruttare un programma informatico sofisticato e, al contrario del caso automobilistico, restano molto al di sotto delle capacità di un adulto.
Questo va detto per sfatare la leggenda metropolitana dei “nativi digitali” dietro cui si trincerano coloro che – con il tipico servilismo giovanilista – si sbracciano a dire che il mondo è cambiato, che la “vecchia” cultura è ormai obsoleta, e che bisogna consegnare alle giovani generazioni digitalizzate il compito di costruire una nuova cultura – e di conseguenza, un nuovo modo di apprendere – come risultato spontaneo dell’accumulazione di informazioni in rete. Come se la conoscenza potesse essere identificata con l’informazione…
Ma quel che colpisce nella demagogia giovanilista dei “nativi digitali” è l’assenza di una riflessione sulle diverse modalità implicate nell’uso di mezzi diversi. Eppure, in ambito pedagogico, riflessioni del genere sono state fatte ed è davvero curioso che si continui a ripetere che i giovani hanno perso la capacità di concentrazione senza riflettere sulle cause di questa deriva, che non è un fatto “naturale” bensì qualcosa che noi adulti stiamo irresponsabilmente fabbricando.
È facile capire che lo strumento di cultura e di apprendimento che richiede il massimo di attività soggettiva è il libro: i suoi caratteri sono immobili, il senso e le immagini del testo vanno estratte con un grande sforzo di ragionamento e di fantasia. Il libro richiede un impegno attivo massimo. Si è imputato alla televisione l’annullamento di questa attività soggettiva, e ciò è in parte vero, anche se la televisione, come il cinema, offre comunque immagini preassegnate su cui si può esercitare liberamente la fantasia e l’interpretazione. Ben altra cosa è il tablet che – come lo smartphone, e molto più del computer – ha un’autonomia soggettiva enorme. Il tablet “ti viene addosso”. Basta sfiorarlo e succedono mille cose indipendenti da te e inattese. Se l’utente non possiede un grado di autodifesa molto alto e non è capace di controllare fino in fondo la macchina, se non ha la maturità sufficiente per sfidare l’“autonomia” della macchina imponendo il dominio della propria intenzionalità, può diventarne un puro e semplice burattino. Ed è facile costatare che tanti “nativi digitali” cadono preda del tablet in un regime di completa impotenza. Un aspetto fondamentale nella maturazione del giovane è lo sviluppo della capacità di creare narrazione. Se il libro è lo strumento per eccellenza per stimolare questa capacità e se il cinema e la televisione lo fanno in misura minore, ma non nulla, il tablet sgretola qualsiasi tessuto di attività autonoma, imponendo il proprio, e impedisce la creazione della narrazione.
Non si tratta certo di proscrivere uno strumento straordinario, e di assumere atteggiamenti luddisti, ma di comprendere che ogni strumento va usato a tempo debito e quando si è capaci di farne un uso ottimale. L’apprendimento mediante tablet può essere una devastante follia nelle menti di chi ancora non riesce a controllare un simile strumento e non ha costruito la capacità di concentrazione e di narrazione di sé.

Si dimentica che in un’intervista del 1996 Steve Jobs dichiarò di essere giunto alla «conclusione inevitabile che il problema dell’educazione non può essere risolto dalla tecnologia. Quel che non funziona nell’educazione non può essere corretto con la tecnologia». Sono passati anni e gli interessi economici hanno spinto nel dimenticatoio quelle importanti ammissioni. Ma è di un paio di anni fa un servizio del New York Times che spiegava come nelle scuole esclusive della Silicon Valley, quelle frequentate dai figli dei grandi manager delle ditte informatiche, non si tocca un computer, un tablet o uno smartphone prima delle ultime classi scolastiche. Si usano soltanto lavagne e gessi colorati, oggetti materiali per apprendere a esercitare la fisicità e la fantasia. Uno di quei manager ha affermato senza mezzi termini che l’idea che un tablet possa aiutare il proprio figlio ad apprendere a leggere o a fare operazioni aritmetiche è semplicemente ridicola. È da pensarci bene prima di buttarsi a capofitto in una delle ennesime trovate che nascondono con ideologie sgangherate corposi interessi economici, con l’unico effetto di spianare a zero le capacità di concentrazione già esilissime dei nostri poveri “nativi digitali”.
(Giorgio Israel – Il Foglio - 17 settembre 2014)

martedì 15 luglio 2014

La dittatura della demenza tramite test

Questo è un test di ammissione alle scuole elementari di Hong Kong.


Da risolvere in 20 secondi.
Viene presentato come un test della capacità di riconoscere le serie matematiche…
Ci siete riusciti in meno di 20 secondi? Se non ci siete riusciti le vostre capacità matematiche sono infime.
Inutile dire che la matematica c’entra come i celebri cavoli a merenda: si tratta di rovesciare il foglio e rendersi conto che la “serie” numerica è 86, xx, 88, 89, 90, 91, per cui xx = 87…
Una straordinaria idiozia che potrebbe ancora andar bene in un giornaletto di enigmistica, ma che, in quanto test di ammissione a una scuola, è soltanto la prova della demenza che soffia per il pianeta come un vento mefitico.

L’aspetto più comico della faccenda è che risulterebbe che sono i piccoli a cavarsela meglio con questo test. E perché? Perché – spiegano certi psicologi – i grandi sono già condizionati dal pensiero matematico delle serie (bah…) mentre i piccoli ricorrono alla pura intuizione, in questo caso a quel che è definito il “pensiero laterale”… Un’invenzione creativa adatta a fare pubblicazioni e a far carriera accademica sul nulla.

mercoledì 9 luglio 2014

La certezza matematica di essere valutato secondo la propria capacità... (ovvero nulla di nuovo sotto il sole)

dal romanzo
Hans Fallada, Kleiner Mann, was nun?, 1932

«Mandel ha assunto un organizzatore. Costui deve riorganizzare tutta l'azienda, razionalizzarla, trovare economie ...»
«Non vorrà mica economizzare sui vostri stipendi?»
«E chi sa mai cosa pensa di fare? Qualcosa troverà, non temere. Lasch mi ha detto che gli dànno tremila marchi di stipendio al mese.»
« Tremila marchi? E Mandel lo chiama economizzare?»
«Bisognerà che li faccia saltar fuori da un'altra parte...»
«E come?»
«Dicono che fisseranno a ciascuno di noi un quantitativo di vendite. Tanto devi vendere, e se non ce la fai, via!»
«Ma è una cosa bestiale! Se i clienti non vengono, o non hanno danaro o non piace loro la roba che dovete vendere, mi sai dire che colpa ne avete voi? Non dovrebbe essere permesso ...»
«Invece è permesso. Han tutti perso la testa. Dicono che è un sistema razionale, economico, che permette di individuare chi non rende. È tutto un imbroglio. C'è il povero Lasch che è spaventatissimo. Dice che se gli applicano quel sistema e lo controllano ad ogni momento, la sola paura di non raggiungere la quota lo paralizza del tutto.»
«Ma che cosa conta» scoppia fuori Ciuffetto tutta in fiamme «ma che cosa conta se proprio non vende tutta la sua quota? E se anche non è svelto come gli altri, che cosa credono di essere quelli che lo cacciano, che gli tolgono ogni possibilità di vita, ogni gioia di lavoro? Bisogna proprio che i meno abili muoiano di fame? Pesare un uomo sulla base dei calzoni che sa vendere!»
«Ciuffetto, mi pare che ti stai montando ...»
«Sicuro che mi arrabbio! Sono cose che mi mettono fuori di me.»
«Ma loro dicono che non pagano un uomo perché è una brava persona, ma perché vende molti calzoni ...»
«Non è vero! Ci tengono anche loro ad avere degli impiegati onesti! Ma quello che stanno facendo, prima cogli operai e adesso con noi, è il miglior modo di tirar su dei farabutti, invece; ma se ne accorgeranno, te lo dico io!»
«Sicuro che se ne accorgeranno! La maggioranza, da noi, è passata agli hitleriani ...»
«Baie! Lo so io per chi voteremo»
«E per chi, di grazia? Forse pei comunisti?»
«Si capisce!»
«Ne riparleremo. Non è che qualche volta l'idea non mi sorrida, ma poi non posso decidermi. É più forte di me. E per ora il posto ce l'ho. Abbiamo dunque tempo ...»
[...]
Il gennaio, invece, è stato un mese oscuro, fosco, pesante. Se il signor Spannfuss, il nuovo organizzatore della ditta Mandel, non s'era quasi fatto vedere in dicembre, in gennaio iniziò la sua attività regolare. La quota di vendita fissata a ciascun impiegato fu stabilita moltiplicando per venti il suo stipendio. Il signor Spannfuss, in quella circostanza, aveva tenuto un bel discorso: che l'innovazione veniva introdotta nell'interesse degli impiegati, dacché ciascuno di lor avrebbe avuto, d'ora in avanti, la certezza matematica di essere valutato secondo la sua capacità. Così scompare qualsiasi forma di adulazione o di sviolinamento del superiore, atteggiamento tanto nocivo all'etos degli impiegati, aveva detto il signor Spannfuss. Datemi il vostro libro di vendite e vi dirò che uomo siete.

(pp. 199-200 e 207 della trad. italiana, Mondadori, Medusa).

giovedì 8 maggio 2014

C'ERA UNA VOLTA

In attesa di parlare dei test Invalsi disintossichiamoci con un po' di cultura…

«Tutte le storie incominciano con “C'era una volta”. E la nostra storia vuole raccontare proprio questo: che cosa c'era una volta.», scrive il grande storico dell'arte Ernst H. Gombrich rivolgendosi ai ragazzi in apertura del suo libro Una breve storia del mondo per giovani lettori, pubblicato per la prima volta nel 1936 a Vienna. Egli spiega loro che i “c'era una volta” non finiscono mai, per cui “c'è da farsi venire le vertigini”, e lo fa usando un linguaggio semplice e incisivo: "Hai provato a stare tra due specchi? Dovresti farlo! Vedrai tantissimi specchi uno dietro l'altro, sempre più piccoli e lontani, all'infinito".  È la stessa riflessione di Thomas Mann che come ricorderanno i lettori di Pensare in matematica ci ha ispirati nelle prime pagine del nostro libro, suggerita attraverso un'immagine meno solenne di quelle bellissime usate da Mann (il pozzo, le dune lungo il mare), ma efficace per disporre i più giovani a pensare facendo, come è loro naturale: afferrare subito lo specchio e lasciare andare la mente. Gombrich li invita da subito a non smarrirsi in questo infinito, ma a confidare nel fatto che possiamo sapere: “Una volta eri piccolo... portavi i pannolini, ma di quello non ti puoi ricordare. Però sai che è così".

Questo libro, pubblicato a Vienna, tradotto in molte lingue e continuamente ristampato (in italiano l'edizione del 2004, con una prefazione della nipote Leonie, è edito da Salani con il titolo Breve storia del mondo), è l'unico scritto da Gombrich in tedesco. Egli lo compose in tempi da record perché in quei tempi di crisi era un giovane laureato disoccupato ... (la sua tesa di laurea era uno studio sul Palazzo Te di Mantova). Subito dopo egli si trasferì in Inghilterra. Gombrich raggiunse grande celebrità storia dell'arte, ma in lui rimase vivo l'interesse  per far conoscere a tutti le ricerche degli studiosi, come mostra un'altro libro stupendo, la Storia dell'arte raccontata da E. Gombrich. Quest'ultimo si rivolge però ai giovani, mentre Breve storia del mondo inizia addirittura parlando di "pannolini" (anche se ogni lettore adulto lo leggerà con piacere).

In quel periodo per la verità l'idea che a un bambino o una bambina si può spiegare quasi tutto con parole semplici era condivisa da molti, e in più paesi vi erano persone alla ricerca di quelle parole semplici per spiegare ai piccoli la storia, la scienza, la matematica, magari senza formalizzarsi troppo, rischiando quale imprecisione ma lasciando volare l'immaginazione e proponendo quadri di insieme: nascevano così collane dal titolo "Scienza per bambini" oppure "L'iniziazione scientifica". Non si trattava di sostituirsi ai manuali scolastici, come lo stesso Gombrich ha scritto; piuttosto di svegliare la curiosità e il gusto di apprendere («prometto che alla fine non vi interrogherò», scrisse Gombrich).

Breve storia del mondo non ha perso con gli anni niente della sua vivacità, derivata anche dal fatto che è un dialogo diretto tra l'autore e il lettore. La sua lettura risulterà di ispirazione ad ogni insegnante e a ogni genitore nel trovare le parole giuste per iniziare a proporre i bambini le “tracce del passato” che gli storici aiutano a ritrovare nel presente. Questo si può fare fin dalle classi prima e seconda (come dimostra d'altra parte l'interesse enorme dei bambini per i racconti sulla storia dei numeri, che è molto utile per iniziarli al calcolo). Si spreca l'apertura mentale dei bambini di 6-7 anni se li si abbandona, come si fa ancora oggi in Italia, a noiose e astratte spiegazioni sugli avverbi di tempo (prima, dopo, contemporaneamente ....) o allo studio dell'orologio (l'orologio riguarda la tecnica, e la fisica e la matematica, non la storia!); per non dire dei ricordi sulla propria famiglia su cui ci si sofferma tanto, che possono sì servire a riflettere su come l'uomo sente l'esigenza di raccontare e tramandare la memoria del passato, ma non introducono affatto alla storia come disciplina. Il modo giusto di dare i primi passi è sentir raccontare cose, fatti, scoperte del passato che la ricerca storica ci svela, con un linguaggio semplice; per poi avviarsi verso un pensiero critico, nelle ultime classi (dalla terza alla quinta) quando si comprenderà che ogni storico deve ricorrere a delle fonti, che interpreta tali fonti sulla base di argomentazioni che però possono essere contraddette, e allora il libro di Gombrich si potrà gustare leggendone anche singoli capitoli.
Gombrich inizia dal pannolino, e dalle vite dei genitori e dei nonni, ma poi entra subito in materia con “i più grandi inventori”, l'umanità preistorica. Nel suo racconto si appoggia con grande intuito su ciò che i bambini sanno, spingendo la loro fantasia, ma senza evitare i punti dolorosi: come nel capitolo sui cavalieri («Degli antichi cavalieri avrai certo già sentito parlare...») che conclude parlando molto seriamente delle crociate. Il libro è  incentrato sull'Europa ma con un capitolo sull'India e due sulla Cina, forse poco nell'insieme dell'opera ma comunque un tentativo pionieristico di aprirsi a una "world history" di cui l'esigenza è molto più diffusa oggi che nella scuola europea degli anni Trenta. Gombrich è anche originale nel dare spazio alla storia della scienza e della tecnica, mentre a scuola la scienza continua a essere proposta come una entità monolitica e senza storia. Entrambi questi aspetti mostrano che egli aveva compreso, da giovane ricercatore, che il mondo che aspettava i bambini sarebbe stato contrassegnato dal ruolo del sapere e dalla convivenza o rivalità fra ambiti culturali con proprie peculiarità in ogni punto del globo.

La matematica è quindi presente nel libro di Gombrich, e vogliamo ricordare due passi molto belli. La storia più remota dei simboli numerici era allora scarsamente conosciuta negli anni Trenta, ma egli racconta invece delle cifre indiane usate dagli arabi:

«Più ancora che dai persiani, gli arabi impararono dai greci che abitavano le città conquistate nell'impero romano d'Oriente. Presto infatti smisero di bruciare i libri, e anzi si misero a raccoglierli e a leggerli. Leggevano volentieri soprattutto gli scritti di Aristotele, il grande maestro di Alessandro Magno, che tradussero in arabo. Da lui impararono a occuparsi di tutte le cose della natura e a ricercare le cause di tutte le cose. Una attività che praticarono poi volentieri e con solerzia. Molti nome delle scienze che prima o poi incontrerai a scuola vengono dall'arabo, come la "chimica” o l'“algebra”. Il libro che tieni in mano in questo istante è fatto di carta. Anche questa è una cosa che dobbiamo agli arabi, che a loro volta l'avevano imparato da prigionieri di guerra cinesi.
Ma per due cose soprattutto io sono grato agli arabi. Una sono le straordinarie favole della loro tradizione orale e scritta che puoi leggere nelle Mille e una notte. La seconda cosa è forse più favolosa delle favole stesse, anche se a tutta prima non ti sembrerà così.»

Egli spiega il valore posizionale delle cifre e chiede: «Tu ci saresti riuscito a fare un'invenzione così comoda?»

Più favolosa delle favole stesse... addirittura magia, come scrive più avanti, parlando dell'età moderna:

“La cosa più strana è che in quello stesso periodo in cui il popolo era così superstizioso [si riferisce alla caccia alle streghe] c'erano alcuni che non avevano dimenticato il pensiero di Leonardo e degli altri grandi fiorentini, che continuarono a tenere gli occhi aperti e a riconoscere il mondo per quello che è realmente. Furono costoro a trovare la vera magia, quella grazie alla quale si può sapere ciò che è stato e ciò che sarà, grazie alla quale si riesce a stabilire di che materia è composta una stella che è lontana da noi miliardi di chilometri, o grazie alla quale si può prevedere con precisione quando si verificherà un'eclissi di sole e in quali luoghi della Terra sarà visibile.
Questa magia era la matematica. Non che quelle persone l'avessero inventata, dal momento che i mercanti aveva sempre saputo far di conto, però loro si accorsero sempre più chiaramente di quanto in natura si lascia individuare da leggi matematiche. Di come un pendolo lungo 98 centimetri e 1 millimetro ci impiega esattamente un secondo per compiere un'oscillazione, e da che cosa dipende questo fenomeno. Si trattava di quelle che vennero chiamate le “leggi della natura”. Già Leonardo da Vinci aveva affermato che “la natura non rompe la sua legge”, e ora si seppe con certezza che ogni fenomeno naturale, che sia stato misurato e descritto con precisione una volta, si ripete sempre allo stesso modo, e non può fare altrimenti. era una scoperta inaudita e una magia ben più grande di tutte quelle imputate alle streghe. Ora infatti l'intera natura, le stelle e le gocce d'acqua, la caduta di una pietra e il vibrare della corda di un violino non erano più un caos folle e inspiegabile capace solo di impaurire gli uomini. Chi conosceva la formula matematica giusta possedeva la formula magica di ogni cosa. E alla corda di violino poteva dire: “Se vuoi suonare un la, devi essere lunga così, tesa così, e oscillare in qua e in là 435 volte al secondo”. E la corda lo fa.
Il primo a scoprire l'inaudito potere magico che si nasconde nella misurazione della natura fu un italiano: Galileo Galilei.»

(Ana Millán Gasca)

martedì 22 aprile 2014

Una insegnante ci scrive per descrivere il clima malsano che stanno determinando le prove Invalsi nelle scuole

Quest'anno insegno in una quinta elementare e da qualche settimana aleggia nella mia classe l'ansia per questa sorta di valutazione che avverrà il 6 e il 7 maggio.

Le insegnanti sembrano delle mine vaganti: non fanno altro che somministrare questi test, con la speranza di addestrare i bambini il più possibile. Mi sembra assurdo che la scuola si sia ridotta a questo e non trovo proprio il senso di tutto ciò.
Per non parlare poi dei contenuti di queste prove: a dir poco deludenti e offensivi dell'intelligenza dei bambini. 
Cronometro alla mano, silenzio surreale in aula, sguardi persi nel vuoto...
Correggendo i test di Matematica proposti ho riscontrato alcuni errori nella sezione relativa alla geometria. 
Errori che neanche erano stati evidenziati dalle insegnanti...
Non si fa altro che correre e sottoporre i bambini a "torture" inutili!
Cosa ancor più imbarazzante è il voler a tutti i costi spiegare gli argomenti presenti su questi test, in vista proprio delle prove Invalsi. 
Ma come mai l'autostima delle insegnanti dipende da questa valutazione? Come mai hanno il terrore di fare brutta figura? Perché si sentono continuamente minacciate?
Credo moltissimo nella libertà d'insegnamento e non permetterò a nessuno di "impormi" quello che devo fare e il modo in cui lo devo fare, una volta che ho chiuso la porta della mia aula!

giovedì 27 marzo 2014

CALLIGRAFIA ADDIO?

di Ana Millán Gasca

(pubblicato su Il Mattino del 25 marzo 2014)

Calligrafia addio, si rallegrano alcuni; il disastro dell'abbandono della scrittura manuale a scuola, lamentano altri: negli ultimi anni sulle pagine dei giornali, in Germania, in Italia, negli Stati Uniti, si registrano posizioni apparentemente inconciliabili. Da una parte, i proclami di chi considera la scrittura a mano un retaggio del passato che scomparirà inevitabilmente e in tempi rapidi e chiede che la scuola si adegui fin da subito alle innovazioni tecnologiche degli ultimi anni, "arrendendosi" alla digitalizzazione della lettura e della scrittura (libri, lettere, giornali, appunti), e che abbandoni non soltanto i libri di carta ma anche carta e penna. In queste posizioni si nasconde l'ennesimo rifiuto delle tradizioni scolastiche europee, considerate oppressive, noiose e isolate dal mondo reale. Si sono alzate molte voci però contro una prospettiva considerata pericolosa e non l'ennesima trasformazione della vita quotidiana come conseguenza delle trasformazione tecnica: la diffusione della stampa ha ampliato gli orizzonti culturali e la forza del pensiero, mentre l'abbandono della scrittura avrebbe come conseguenza un impoverimento del pensiero umano. A sostegno di quest'ultima tesi vari studi hanno esplorato il rapporto tra grafia manuale e capacità espressiva e di lettura (Steve Graham negli Stati Uniti, Sibylle Hurschler in Germania), soprattutto nei bambini, ma sono spesso ricerche fragili che puntano tutto su un collegamento difficile da dimostrare fra il gesto della scrittura e il cervello. Così, libri come il recente Demenza digitale dello psicologo e neuroscienziato Manfred Spitzer, suscita adesioni incondizionate oppure è accusato dai fautori a oltranza del digitale di nascondere sotto una veste scientifica una posizione puramente ideologica e conservatrice. Recentemente all'Università Roma Tre gli studenti futuri insegnanti della scuola primaria hanno ascoltato e dibattuto molto animatamente la difesa della calligrafia da parte di uno dei fondatori dell'Associazione Calligrafica Italiana, Anna Ronchi. Questa è stata la prima, istintiva reazione di giovani che sono nati in anni in cui esisteva già la posta elettronica e che acquistano un tablet con i primi soldi guadagnati.
Già, perché mentre il dibattito sembra senza via di uscita, nelle scuole la questione non si affronta e la scrittura a mano è abbandonata a stanche abitudini. Il paradosso, infatti, è che il modello grafico del corsivo che s’insegna nella scuola italiana risale alla fine del Settecento e soprattutto, è stato sviluppato per uno strumento di scrittura, il pennino ormai del tutto superato: infatti è necessario evitare di alzare la punta del pennino dal foglio, se non per intingerlo nell'inchiostro e quindi le lettere avanzano in un modo lento, che non accompagna il pensiero inquieto dei bambini, e soprattutto degli adolescenti; con il risultato che nella scuola media le lettere tracciate impazientemente diventano irriconoscibili, la grafia illeggibile anche all’autore che speso ripiega sul maiuscolo, altrettanto faticoso e inadatto per scrivere a mano, mentre i numeri ballano e si confondono e portano a errori di calcolo. Ma è possibile che in decenni che hanno visto uno straordinario sviluppo della grafica – si pensi alle etichette dei vini, alle copertine, all'impianto grafico dei libri, alla grafica su Internet – non vi sia stata un'innovazione della calligrafia tale da scongiurarne l’abbandono? Si rende necessario forse oggi che a scuola si impari un po’ di dattilografia per usare le tastiere in un modo un po’ più evoluto di quello con due dita: questa non è un’innovazione che ci deve spaventare. Ma detto ciò, sono alcuni millenni che l'alfabetizzazione inizia dalla scrittura a mano, e forse senza scomodare possibili conseguenze sull'ippocampo una semplice prudenza consiglia di non sottrarre alle giovani generazioni questa esperienza; il suo valore pedagogico è sottolineato dalla ricerca diretta da Benedetto Vertecchi in alcune scuole di Roma di cui ha parlato Il Messaggero nei giorni scorsi.

La risposta infatti è a portata di mano. In Francia nel 1999 è stato convocato un concorso nazionale per sostituire la scrittura scolastica tradizionale con un modello più efficace, e anche più bello, che non ostacoli il fluire dell'idee ma sia sentito dagli adolescenti come un buon compagno nella ricerca di sé. Non è facile mettersi d'accordo per trasformare una tradizione secolare, e persino nella Francia centralista hanno vinto due diversi set di caratteri. Paradossalmente, quasi tutte le innovazioni proposte negli ultimi anni – ve ne sono state in molti paesi europei – ruotano attorno al modello "italico", chiamato così perché si ispira alla scrittura cancelleresca italiana del Rinascimento, e che fu sviluppato negli anni Trenta da un calligrafo inglese, Alfred Fairbank (http://www.italic-handwriting.org). L'Associazione Calligrafica Italiana ha elaborato una proposta per la scuola italiana, anzi due. Il corsivo 1.0, curato da Anna Ronchi, è un'evoluzione del corsivo tradizionale nella forma delle lettere (una t più corta, meno riccioli di unione) e nel modo di legarle, e usa le lettere romane per il maiuscolo, semplificando la consuetudine ora molto diffusa nelle prime classi prime in Italia di far scrivere quattro forme diverse per ogni lettera. L'italico 1.0, agile e moderno, molto regolare nella forma delle lettere –  che sono derivate dalla a che si apre (u), ruota (n), si duplica (m) – si rivolge a coloro che vogliono osare di più oppure si può proporre nella scuola media quando i ragazzi e ragazze desidera una grafia più asciutta e trasformabile secondo un proprio stile. I modelli sono proposti in libretti, diversi per destri e mancini, che si collocano davanti al banco su un piccolo sostegno in legno. Gli allievi non copiano modelli statici, al contrario: la via della scrittura avanza per gruppi di lettere a seconda della forma e le lettere si collocano su righe parallele di cielo (dove si alzano la t, la d, la b), erba (dove vivono la n, la a, la c) e terra (dove scendono la p, la q); i numeri e i simboli matematici si disegnano nel modo giusto sui quadretti per poter essere allineati nei conti senza errori. I bambini, impugnando la penna in modo equilibrato, aiutati dal colore delle righe e dei tratti di unione, sentiranno il movimento sul foglio della scrittura accompagnare i loro pensieri e volare con l'immaginazione, e – come i bambini cinesi alle prese con i loro ben più complessi esercizi di calligrafia – vedranno nello scheletro della scrittura anche i segmenti, i cerchi e le proporzioni della matematica. Anche gli studenti più “digitali” della Formazione Primaria dell’Università Roma Tre si sono appassionati a questa proposta.