Bestiario matematico

Bestiario matematico (serie II).4
Bestiario matematico (serie II).3

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Bestiario matematico (serie II).2
No comment (si commenta da solo)





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Bestiario matematico (serie II).1
Chi abbia un minimo di cultura matematica non ha bisogno di spiegazione per capire perché questo testo merita questa collocazione in questo blog.
Una sola osservazione. “Cause neurobiologiche” del disturbo del calcolo? Quali? E come si differenziano nel caso di discalculia “pura” e discalculia “con comorbidità”? 

Non ci sono parole…





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ARCHIVIO

BESTIARIO MATEMATICO n. I
La legge “dissociativa” dell’addizione

In aritmetica si introduce la cosiddetta proprietà associativa dell’addizione, che così si scrive: (a + b) + c = a + (b + c). Essa significa che sommare prima a con b e quindi sommare il risultato con c è la stessa cosa che sommare a con il risultato della somma tra b e c. 
È una proprietà importante: difatti, dato che la somma è un’operazione binaria, ovvero definita tra due numeri, essa spiega quali regole presiedono alla somma tra più di due numeri. In parecchi libri scolastici di matematica questa proprietà viene malamente enunciata dicendo, per esempio, che «associando gli addendi il risultato non cambia», Così si travisa o comunque si esprime male il significato autentico della legge. Da questo travisamento è nata, non si sa in quale testa d’asino, una legge inversa mai conosciuta nell’aritmetica prima che l’autonomia scolastica non si limitasse a ciò che è ragionevole, ma permettesse di ricreare liberamente le discipline: la legge dissociativa dell’addizione. Questa viene enunciata dicendo che «dissociando gli addendi il risultato non cambia», ovvero che «se a uno o più addendi se ne sostituiscono altri la cui somma è uguale all’addendo sostituito il risultato non cambia». Per esempio, significa che 11 + 12 = (10 + 1) + 12 = 10 + (1 + 12) = (9 + 2) + 12 = 9 + (2 + 12), ecc. ecc. A essere indulgenti, è un modo di ridire a rovescio la proprietà associativa. Di fatto, non è così, è una colossale castroneria, perché in fin dei conti è quanto dire che ogni numero è somma di unità… 
La matematica segue un principio di semplicità ed economia nelle definizioni, che sembra ispirato al principio del filosofo scolastico medioevale Guglielmo di Occam, il cosidetto “rasoio di Occam”, secondo cui «Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem», ovvero «gli enti non debbono essere moltiplicati al di là del necessario». Imporre agli scolari di apprendere a memoria questa nuova inutile e assurda legge è una improvvida tortura il cui unico scopo sembra essere quello di rendere ancor più odiosa la già tanto odiata matematica.
È da tempo che si tenta in tutti i modi di dissuadere certi novelli Pitagora dal diffondere questa assurdità. Niente da fare. La legge dissociativa dilaga. E non a caso dilaga nei libri e tra i gruppi d’insegnamento più “innovativi”, quelli del “cooperative learning”, della didattica “sperimentale”: basta fare un giretto su Internet. Non bastasse, propalano altre baggianate come l’idea che la legge commutativa (a + b = b + a) serve a verificare che ho fatto la somma correttamente (prima sommo a con b, poi b con a, se il risultato è lo stesso è esatto…); ma su questo torneremo).
Ora raccontiamo un episodio esilarante. Un professore di matematica che vede il suo bambino costretto a studiare questa “legge” va dalla maestra e la prega di cessare lo scempio. Risposta: la decisione di insegnare in tal modo è stata presa dall’interclasse e quindi il genitore dovrebbe chiedere una riunione dell’interclasse, avanzare la sua richiesta e vedere se sarà accettata.
Insomma, in nome dell’autonomia scolastica, la verità del teorema di Pitagora o delle conoscenze trasmesse da secoli nella matematica (e a maggior ragione in ogni disciplina) diventano oggetto di decisioni prese dagli organi della “democrazia scolastica”. C’è di che detestare la democrazia.
Ne discendono due riflessioni. La prima: guardiamoci da chi proclama con prosopopea che è finito il tempo in cui i concetti debbono venire assieme alle metodologie d’insegnamento, anzi devono essere subordinati ad esse. In tal modo si legittima come scelta “didattica” qualsiasi baggianata venga alla mente, facendo strame di qualsiasi oggettività della conoscenza. La seconda: alla larga da chi predica l’assoluta autonomia di istituti scolastici che autogestiscano anche i contenuti dell’insegnamento, “ricreando” pure la matematica, e che nutrano la pretesa di gestire la propria formazione e reclutamento, ovvero la propria autoriproduzione. Perché così salta ogni controllo e la libertà diventa arbitrio.




BESTIARIO MATEMATICO n. II
Abusi in teoria degli insiemi




In molti libri, in molti documenti in rete, adottati anche da circoli scolastici, istituti, ecc., si legge che un insieme può essere definito o rappresentato in tre modi:
- per caratteristica, ovvero secondo una proprietà che lo definisce, detta anche definizione intensiva. Esempio: P {insieme di tutti i numeri pari}
- per elencazione, ovvero elencando materialmente tra parentesi i suoi elementi, detta anche definizione estensiva. Esempio: A = {3, 5, 9, 17}
- con un diagramma di Eulero-Venn, ovvero con un disegno che rappresenta in modo simbolico l'insieme. Esempio:




Prima castroneria:
I diagrammi di Eulero-Venn furono introdotti per la prima volta da Eulero nelle Lettere a una principessa di Germania, per spiegare alla principessa l'inclusione di certi concetti, come nel diagramma precedente.
Ma chiunque dovrebbe capire che se pretendo di rappresentare l'insieme delle vocali, dato "per elencazione", V = {a, e, i, o, u} con il sottostante disegno, il bambino confonde l'insieme effettivo (un elenco finito di cinque oggetti) con la figura geometrica a ellisse in cui ballano quei cinque elementi.


Seconda castroneria:
Le prime due non sono due definizioni della stessa nozione. Danno luogo a nozioni molto diverse. La definizione “intensiva” restringe enormemente il numero di insiemi considerabili - per esempio A non è definibile mediante alcuna proprietà mentre molti insiemi definiti da proprietà non sono elencabili (tali sono tutti gli insieme infiniti).
La definizione restrittiva è errata e fuorviante anche perché la nozione primitiva di insieme - dettata dalla nozione comune, usuale, di insieme – può tranquillamente includere i casi in cui l'insieme può essere caratterizzato da una proprietà. Il viceversa non è vero, e quindi la seconda, oltre a essere troppo restrittiva, non è intuitiva. I matematici possono anche adottare tali definizioni per alcuni loro scopi ristretti, ma si tratterebbe di una scelta oltre che discutibile, didatticamente sbagliata.
È evidente che i pazzesco assegnare come compito o "verifica" (come si dice oggi) a un bambino esercizi consistenti nel rappresentare un dato insieme nei tre modi anzidetti. Se il bambino è sveglio si accorgerà che vi sono insiemi che non sono suscettibili di tutte e tre le definizione e gli crollerà tutto addosso, incluso l'insegnante.

Terza e più grande castroneria:
Come viene introdotto il concetto di elemento che non appartiene a un insieme?
In alcuni testi si legge che esso è un intruso...
“Cerca l'intruso” - leggiamo in un esercizio-verifica. Si propone il seguente diagramma di Eulero-Venn delle vocali in cui si è "imbucato" un 8... 8 è l'intruso !



Il bambino così interiorizza l'idea che l'intruso è un elemento che non dovrebbe stare dentro e si è infilato abusivamente, come gli "imbucati" nelle feste...

Dovrebbe essere superfluo dire che, a norma dell'elenco 8 non è un elemento dell'insieme, mentre a norma del diagramma di Eulero-Venn lo è. A meno che il diagramma o l'elenco non siano sbagliati. Punto.

Ci sarebbe da ridere se non fosse da piangere.

Ovvero, ancora una volta: come confondere le idee ai poveri bambini introducendo definizioni assurde e scombiccherate. E di nuovo, siamo alla violazione del rasoio di Occam (vedi Bestiario n.1) compiuto oltretutto da persone che meritano soltanto un bel cappello d'asino.





BESTIARIO MATEMATICO n. III
Ancora sull'uso abusivo della teoria degli insiemi


La teoria degli insiemi ha visto la luce nella seconda metà dell’Ottocento ad opera di Georg Cantor. In più di duemila anni di matematica, da Euclide a Poincaré, nessuno ne ha avuto bisogno. Ciò detto, oggi, soprattutto in branche come la topologia, la combinatoria, calcolo delle probabilità, ecc. ecc. la teoria degli insiemi è un ottimo e vantaggioso linguaggio sintetico. Un linguaggio, niente più.
Non bisogna dimenticare che Cantor l’ha introdotta essenzialmente per costruire una teoria dei “numeri infiniti” o “transfiniti”. Il punto di partenza è l’osservazione che la numerazione di un gruppo di oggetti si fa mettendolo in corrispondenza biunivoca con un altro insieme più semplice: p. es. le dita di una mano, una manciata di sassolini, ecc. Il fatto che due insiemi finiti siano in corrispondenza biunivoca equivale al fatto che abbiano lo stesso numero di elementi.
Nel campo dell’infinito non è così: un sottoinsieme strettamente contenuto in un altro (e quindi intuitivamente più “piccolo”) può essere posto in corrispondenza biunivoca con il secondo. Il classico esempio (illustrato anche da Galileo) è l’insieme dei numeri pari che è in corrispondenza biunivoca con l’insieme di tutti i numeri naturali (ad ogni numero n corrisponde il numero pari 2n, e viceversa), ma è strettamente contenuto in esso (più “piccolo”). Persino i numeri razionali (frazioni) possono essere posti in corrispondenza biunivoca con i numeri interi e con i pari… Perciò potremmo dire che hanno lo stesso tipo di infinità, hanno lo stesso “numero infinito” o “cardinalità”, “potenza”, o “numero transfinito”, pur essendo contenuti strettamente l’uno nell’altro.
Ovviamente qui non entriamo nella teoria cantoriana dei numeri transfiniti e nei paradossi cui ha condotto. Ma l’essenziale è questo: questa teoria è stata inventata assieme alla teoria degli insiemi per manipolare matematicamente l’infinito – obbiettivo riuscito soltanto a metà.

Conseguenza: nel caso finito, la teoria della cardinalità o potenza degli insiemi non serve a niente, perché in questo caso il concetto di “cardinalità” o “potenza” coincide con quello di “numero” di elementi dell’insieme.

Questo spiega anche perché insistere sulla teoria degli insiemi è fuori luogo, poiché essa è davvero utile, anche nel caso finito, soltanto come linguaggio che abbrevia una serie di lunghi discorsi in contesti tecnici più avanzati.

Ebbene, nelle primarie è invalso il malcostume di introdurre il concetto di potenza di un insieme. D’altra parte gli insiemi che vengono considerati nelle primarie sono sempre finiti: sarebbe semplicemente irresponsabile e idiota pensare di introdurre un bambino al difficile e astratto concetto di potenza di un insieme infinito invece di insegnargli le tavole pitagoriche. Pertanto questa nozione è assolutamente inutile, superflua, un aggravio di definizioni, è ancora una violazione del principio del rasoio di Ockham.

E invece…. Non soltanto questa nozione viene introdotta ma si dà luogo a un linguaggio demenziale, insegnando al bambino che un insieme di 8 mele è “più potente” (sic!) di un insieme di 6 arance e l’insieme di 6 arance è “meno potente” (sic!) dell’insieme di 8 mele.

Basterebbe dire che il primo è più numeroso del secondo. No, bisogna dire che è “più potente”, termine ridicolo, mai usato da nessun matematico.

E così invece di manipolare numeri e apprendere a contare, i bambini vengono addestrati a una casistica ridicola con un linguaggio ancor più ridicolo.



BESTIARIO MATEMATICO n. IV
A ruota libera sulla legge commutativa


Quasi tutti conoscono la proprietà commutativa dell'addizione e della moltiplicazione.

In altri termini, la proprietà (dei numeri ordinari, interi, razionali, ecc.) per cui:

a + b = b + a  (per l'addizione)

a × b = b × a (per la moltiplicazione).

Ebbene, sapete come la presentano alcuni libri e i maestri che adottano questi libri?

Non come una proprietà dei numeri interi, razionali, ecc. No, per carità. Bensì:

Come un metodo per verificare se il risultato dell'operazione è giusto!......

Ovvero, fate a + b. Il risultato è c.

Ora calcolate b + a. Se il risultato è ancora c vuol dire che avete fatto il calcolo giusto.

Nessun commento dovrebbe essere necessario.

Eppure, pare che qualcuno resista, dicendo che, è ben vero che la verifica con la sottrazione è l’unica giusta, e siccome la verifica con la sottrazione nel caso della somma di tre elementi non si può fare, ecco che la proprietà commutativa è l’unico modo...

L’unico risultato è di aver dimostrato di non aver capito nulla di nulla.

Va osservato in primo luogo che un metodo di PROVA in senso stretto per l'addizione o la moltiplicazione non esiste. Anche la famosa prova del 9 per la moltiplicazione non è attendibile in toto, perché cade in fallo in un alcuni casi (e infatti i professori competenti consigliano di non usarla, perché se cado in una situazione modulo 9 ottengo un risultato falso). Comunque, se eseguo la sottrazione di b da a per dimostrare che la somma a + b è stata fatta correttamente, non VERIFICO un bel niente: potrei fare un errore nel sottrarre e arrivare alla conclusione che ho sbagliato la somma, mentre non è vero… Qui stiamo parlando di controlli che servono, in qualche modo, a rendere affidabile il risultato. Potrei anche limitarmi a ripetere l'operazione tre o quattro volte, magari facendola fare da persone diverse. Insomma, se qualcuno crede che esista un metodo universale di controllo, una PROVA assoluta, costui non ha capito niente. È però vero che la sottrazione, in quanto mette in gioco una procedura diversa (inversa) fornisce un controllo più attendibile che non rifare la somma commutando, perché questo non conduce ad alcuna modifica sostanziale nel calcolo: tanto varrebbe ripetere la stessa somma. Quindi, è certamente meglio "verificare" il (direi meglio "controllare" l'attendibilità del) risultato con la sottrazione che non facendo l'addizione commutata. E questo si può fare con un numero qualsiasi di addendi. È banale. Se ho calcolato a + b + c, questo è quanto calcolare prima (a + b) e poi sommare il risultato con c (oppure sommare a con il risultato di b + c). Basta allora controllare con la sottrazione il risultato di (a + b) e poi ancora con la sottrazione il risultato di (a + b) + c. Sarà noioso se ho molti addendi, ma si può fare, è ovvio. Quindi chi ha detto che non si può fare ha bisogno di un robusto ripasso di aritmetica elementare.
Detto questo è bene precisare una volta per tutte che la proprietà commutativa indica una proprietà fondamentale dell'insieme dei numeri ordinari (non valida per insiemi numerici più complicati) e non è in alcun modo una regola di controllo dell'operazione. Dire questo è una bestialità colossale.




BESTIARIO MATEMATICO n. V
Fraintendimenti sul principio di induzione


Ogni tanto vale la pena di fare qualche passeggiata in rete per rendersi conto di quel che circola. Ed è assai interessante leggere alcuni commenti sulle nuove Indicazioni Nazionali per i Licei. Naturalmente la maggior parte dei commenti sono dedicati alle materie non scientifiche. Però ho trovato significative alcune accanite discussioni attorno alla matematica e, in particolare, attorno alla menzione, nelle IN, del “principio di induzione matematica”, che vi figura al seguente modo:

[obbiettivi dello studio] : 
una conoscenza del principio di induzione matematica e la capacità di saperlo applicare, avendo inoltre un’idea chiara del significato filosofico di questo principio (“invarianza delle leggi del pensiero”), della sua diversità con l’induzione fisica (“invarianza delle leggi dei fenomeni”) e di come esso costituisca un esempio elementare del carattere non strettamente deduttivo del ragionamento matematico.

Chi si chiede perché mai tanta attenzione per un principio tanto “banale” e secondario e soprattutto che senso abbia questo discorso sull’induzione matematica, la sua diversità con l’induzione fisica, perché non si tratti di un ragionamento di carattere strettamente deduttivo. E fin qui, niente di male. Se non fosse che – come accade spesso in rete – invece di provare a pensare e riflettere si sentenzia a rotta di collo, partono giudizi sommari, e persino insulti. Roba da cretini, ignoranti, analfabeti. Non è evidente che si tratta di pura deduzione? Questa indicazione deve averla scritta un filosofastro, forse persino Benedetto Croce. Di certo, è scandaloso che i matematici della commissione (tra cui uno degli amministratori del blog) l’abbiano lasciata passare. Oppure sarà un parto del solito pedagogista ignorante.
Beh, per stavolta i poveri pedagogisti non c’entrano. E neppure i filosofi.
E chi si è espresso in tal modo sul principio di induzione, inteso come il modo più elementare (se non si vuol ricorrere al teorema di Gödel) di far vedere che la matematica non è una scienza puramente deduttiva, che la manipolazione dell’infinito impone delle assunzioni extra-matematiche che nessuna riduzione assiomatica serve a esorcizzare? Un filosofastro? Don Benedetto?
Macché… Uno dei più grandi matematici della storia: Henri Poincaré
Citiamo (La science et l’hypothèse):

«Il giudizio su cui poggia il ragionamento per ricorrenza può essere messo in varie forme; si può dire per esempio che in una collezione infinita di numeri interi diversi, ve ne è sempre uno più piccolo di tutti gli altri. Si potrà passare facilmente da un enunciato all’altro e darsi l’illusione di aver dimostrato la legittimità del ragionamento per ricorrenza. Ma ci si fermerà sempre, si perverrà sempre a un assioma indimostrabile che non sarà in fondo altro che la proposizione da dimostrare tradotta in un altro linguaggio.
Non ci si può dunque sottrarre alla conclusione che la regola del ragionamento per ricorrenza è irriducibile al principio di contraddizione.
Questa regola non può neppure venirci dall’esperienza; quel che l’esperienza potrebbe insegnarci è che la regola è vera per i primi dieci, centro numeri, non può raggiungere la serie infinita dei numeri, ma soltanto una porzione più o meno lunga ma sempre limitata di questa serie.
Se si trattasse soltanto di questo, il principio di contraddizione basterebbe, ci permetterebbe sempre di sviluppare quanti sillogismi vogliamo, è soltanto quando si tratta di racchiuderne un’infinità in una sola formula, è soltanto di fronte all’infinito che questo principio fallisce, ed è anche qui che l’esperienza diventa impotente. Questa regola, inaccessibile alla dimostrazione analitica e all’esperienza è il vero tipo di giudizio sintetico a priori. Non si potrebbe neppure considerarlo come una convenzione, come per certi postulati della geometria.
Perché dunque questo giudizio si impone a noi con irresistibile evidenza? È perché non è altro che l’affermazione della potenza del pensiero che si sa capace della ripetizione indefinita dello stesso atto appena questo atto è possibile una volta. Il pensiero ha un’intuizione diretta di questa potenza e l’esperienza non può essere per lui altro che un’occasione di servirsene e di qui prenderne coscienza.
Ma, si dirà, se l’esperienza bruta non può legittimare il ragionamento per ricorrenza, la stessa cosa accade per l’esperienza aiutata dall’intuizione? Vediamo successivamente che un teorema è vero per 1, per 2, per 3 e così via, la legge è evidente, diciamo, e lo è allo stesso titolo di ogni legge fisica che poggia su osservazioni il cui numero è molto grande ma limitato.
Non si può disconoscere che vi è qui un’analogia evidente con i procedimenti abituali dell’induzione. Ma esiste una differenza essenziale. L’induzione applicata alle scienze fisiche è sempre incerta, perché riposa sulla credenza in un ordine generale dell’universo, ordine che è fuori di noi. L’induzione matematica, cioè la dimostrazione per ricorrenza, s’impone al contrario necessariamente perché non è altro che l’affermazione di una proprietà del pensiero stesso.»

Magnifico brano su cui riflettere, invece di sbraitare.
E soprattutto meglio non sbraitare che le IN non tentano di stabilire un rapporto tra scienze esatte e scienze umane. Non è questo un modo fondamentale e semplice di connettere la matematica a una tematica filosofica?
Le IN sulla matematica indicano tanti nessi con la storia, la filosofia, la tecnologia:

« [acquisire] il senso e la portata dei tre principali momenti che caratterizzano la formazione del pensiero matematico: la matematica nella civiltà greca, il calcolo infinitesimale che nasce con la rivoluzione scientifica del Seicento e che porta alla matematizzazione del mondo fisico, la svolta che prende le mosse dal razionalismo illuministico e che conduce alla formazione della matematica moderna e a un nuovo processo di matematizzazione che investe nuovi campi (tecnologia, scienze sociali, economiche, biologiche) e che ha cambiato il volto della conoscenza scientifica».

E poi:

« il concetto di modello matematico e un’idea chiara della differenza tra la visione della matematizzazione caratteristica della fisica classica (corrispondenza univoca tra matematica e natura) e quello della modellistica (possibilità di rappresentare la stessa classe di fenomeni mediante differenti approcci)».

Questa difficoltà nel cogliere questi aspetti, così come una diffusa incapacità di comprendere la tematica che sta dietro il principio d’induzione e che è connessa, più in generale, alla problematicità della manipolazione dell’infinito, non è la prova che siamo di fronte a un analfabetismo culturale della matematica da colmare al più presto; con l’apporto riflessivo e attento di tutti?




BESTIARIO MATEMATICO n. VI
Il rasoio di Occam spezzato ancora una volta...


In matematica la violazione di questo principio si traduce in un diluvio di definizioni inutili che ingombrano la testa. E poi ci si stracciano le vesti sul nozionismo, lo studio trasmissivo, istruttivo, le “teste piene” e non ben fatte”!...
Abbiamo già parlato della famigerata “legge dissociativa dell’addizione”, anche se in tal caso più che di definizione inutile si tratta di una definizione insensata.
Un esempio di definizione inutile è quello della divisione per ripartizione e divisione per contenenza.
In realtà si tratta soltanto di procedimenti empirici per introdurre l’idea di divisione: in un caso un bambino distribuisce 15 caramelle a 5 bambini una per volta, nell’altro invece prova a dare a ciascuno 3 caramelle (oppure 2 o 4) e poi vede cosa succede.
Ovviamente è del tutto naturale procedere con simili esperienze con i bambini. Ma di qui a voler dare le definizioni matematiche di queste due divisioni come se fossero cose distinte, ne corre!...
La divisione è una soltanto ed è semplicemente stupido attribuire un nome a quello che è soltanto un modo di pensare la divisione, o anche un modo di farla.
L’aspetto comico della faccenda è che nei libri o negli appunti in rete in cui si cerca di dare queste definizioni poi si ammette candidamente che la “ripartizione” si “riconduce” alla “contenenza”. Ma pensa un po’ che scoperta!… Chi ha fatto questa pensata sarà diventato calvo… C'è chi ammette pure (bontà sua) che in fondo queste definizioni sono artificiose. Però la follìa definitoria non si arresta e ci si imbatte persino in tentativi di definizione matematica del concetto di “contenenza”.....
Tra le definizioni più esilaranti che abbiamo trovato vale la pena citare questa: 
«La divisione di contenenza può essere vista come divisione di una grandezza per una grandezza di una stessa specie, il risultato è un numero puro; la divisione di ripartizione può essere vista come divisione di una grandezza per un numero puro, il risultato è una grandezza della stessa specie.» 
Non sapevamo che esistessero i numeri “impuri” (un’altra definizione?!...). 
Oppure, la via maestra è rifugiarsi nella teoria degli insiemi per sentenziare che «divisione per contenenza vuol dire ripartire un insieme in sottoinsiemi equipotenti». Facile, in seconda elementare, no?
E questa sarebbe la scuola aperta, delle teste ben fatte, la scuola non nozionistica?...




BESTIARIO MATEMATICO n. VII
Dei tanti modi di rendere odiosa la matematica


Prendiamo Il Libro degli esercizi per la 2a elementare edito da Giunti scuola, pag. 23.
Si propone la tavola pitagorica con le sole prima riga e colonna, chiedendo di compilarla, ovvero di fare le relative moltiplicazioni.
Fin qui nulla da ridire.
Poi si propongono le seguenti domande:
1) Quali sono i numeri che compaiono 4 volte?
2) Di quali moltiplicazioni sono il risultato?
3) Quali numeri compaiono una sola volta?
4) Di quali moltiplicazioni sono il risultato?
Naturalmente, in tutto questo non c'è nulla di sbagliato, e quindi si potrebbe dire che non andrebbe messo sotto la voce "bestiario".
Tuttavia, il problema è: qual è il senso di un simile esercizio? Che cosa mira a far scoprire? Quali capacità pretende di sviluppare?
Nessuna, eccetto, forse, delle abilità del tipo "settimana enigmistica". 
Propone un'attività osservativa che andrebbe forse bene nelle scienze naturali, ma non corrisponde a niente in matematica, non rivela alcuna regolarità, alcuna proprietà, non stimola alcuna capacità specificamente matematica.
Che cosa si ricava dallo scoprire ed elencare i numeri che compaiono 4 volte? Se ne ricava soltanto una perdita di tempo a osservare e annotare la tabella. Un'attività che con l'acquisizione di capacità matematiche non ha nulla a che fare.
I numeri che compaiono una sola volta sono 1 e 100 e poi alcuni che si trovano sulla diagonale principale. Stavo per ricavare distrattamente qualche proprietà da questa osservazione, ma neanche questa esiste... Grazie a chi me l'ha fatto notare, osservando che vi sono altri numeri che compaiono una sola volta sulla diagonale principale. Il guaio è che neanche questa è una caratterizzazione di alcunché. Difatti, non tutti i numeri della diagonale principale compaiono una sola volta. E non soltanto 2 e 4, ma anche 36 (che è uguale a 4 per 9) e anche 16 (2 per 8). Dobbiamo fare un elenco di osservazioni, come fossimo entomologi, doppiati da enigmisti? Oppure qualcuno ha voglia - per fare il matematico per davvero - di fare qualche studio di analisi combinatoria per trovare qualche risultato dotato di senso? Roba da seconda elementare, evidentemente...
Risulta così ancor più evidente l'assoluta idiozia di questo "esercizio" che è tutto, salvo che un esercizio di matematica.
Quel che si richiede è soltanto una penosa, noiosa, inutile, defatigante ricerca sulla tabella senza alcuno scopo se non quello enigmistico.
Provate a sottoporre un esercizio del genere a un bambino (io ci ho provato): se ne ritrarrà disgustato.
È un modo perfetto per rendere odiosa la matematica, presentandola come un'attività meccanica, un'enigmistica insensata, inutile e mortalmente noiosa.
Per il resto, c'è tutto il solito armamentario di bestialità: come il dedicare una pagina di esercizi a eseguire "divisioni di ripartizione" e un'altra a "divisioni di contenenza", come se fossero due operazioni diverse... E, ovviamente, disegnando...



BESTIARIO MATEMATICO n. VIII
Come la matematica "alla finlandese" distrugge la matematica


Un insegnante osserva che non capisce perché mai l’Ordine delle operazioni finlandese, che è stato criticato in un articolo sull’insegnamento della matematica in Finlandia - o meglio, hanno criticato i matematici finlandesi... -, sia tanto scandaloso e distrugga l’algebra.
«È quel che faccio con i miei studenti», ha commentato. Per insegnare loro quanto fa 2x + 3x chiedo quanto fa 2mele + 3mele. “5mele”, rispondono. «Allora dico loro di mettere x al posto di “mela” e il gioco è fatto». Allo stesso modo, l’insegnante dice che non vede nulla di male a lasciar perdere il simbolo “=”, perché tanti passaggi da una parte all’altra confondono le idee e allora tanto vale meglio usare una visione della matematica «algoritmica e tabellare». Tanto – aggiunge – «noi dobbiamo sviluppare competenze e abilità».
Benissimo, anzi malissimo. Benissimo perché così si è data una dimostrazione perfetta di come la didattica della matematica per competenze distrugga la matematica e sviluppi il caos logico nella mente dei ragazzi. Malissimo… appunto per aver ottenuto questo esito nefasto.
Perché malissimo? Per il semplice motivo che “mela” non è affatto la stessa cosa di “x” e non si può mettere “x” al posto di “mela”. Difatti, “x” è sempre e comunque un NUMERO e NON UN OGGETTO!... “x” è un NUMERO di mele, di banane o di autocarri o di quel che volete, non è “la mela”.
La soluzione dell'equazione 2x = 4 non è mela = 2 - sarebbe una semplice bestialità... - bensì è "il numero delle mele è 2" !.........
Come potrei giustificare un passaggio come: 2x + 2y = 2(x + y) nella logica finlandese e di quell'insegnante? (Passaggio che, è difficile negarlo, è non di rado necessario). Lo dovrei giustificare dicendo che 2mele + 2banane è la stessa cosa di 2 (mele + banane)?... Il concetto della somma di mele e banane è privo di senso. La somma di oggetti non si può fare, tutt’al più si possono fare incroci botanici… ma non c’entra niente… Invece l’espressione 2x + 3y ha perfettamente senso in quanto sia 2 che x e y sono numeri. Perciò ha senso sommarli e fare una manipolazione come 2x + 2y = 2(x + y).
Questa è l’algebra, bellezza… avrebbe detto il celebre attore americano…
Si può benissimo partire da un problema concreto in cui si deve determinare il numero di certe “cose”, numero sconosciuto che denotiamo con simboli come x, y z, ecc. Poi, una volta scritte le relazioni che intercorrono tra questi numeri incogniti, e dimenticato completamente il significato che vorremmo attribuire ai simboli x, y,..., mettiamo in opera tutta la potenza delle manipolazioni algebriche e otteniamo il risultato che ci dice che, poniamo, x = 5, y = 8, ecc., ovvero il numero delle mele è 5 e il numero delle banane è 8. Insomma, l’algebra è un necessario intermezzo di calcolo tra la formulazione concreta iniziale di un problema e l’interpretazione finale.
Le manipolazioni si possono mettere in opera in quanto dipendono dalle proprietà fondamentali dell’aritmetica – commutatività, associatività, distributività, ecc. ecc. – e hanno senso proprio in quanto si tratta di numeri e non di oggetti. Perciò, stabilire quelle proprietà è assolutamente necessario, imprescindibile.
Questa è la sostanza di quella grande creazione che è l’algebra, che consente di risolvere in modo meccanico una quantità di problemi insolubili in via diretta. Generazioni di ragazzi e uomini, dopo coloro che faticosamente l’hanno inventata, l’hanno saputa usare e perfezionare, e ora l’umanità sarebbe diventata così deficiente da non essere più in grado di capirla, non dico di usarla?... Non credo che occorra avere una simile sfiducia nella mente dei nostri giovani.
Purtroppo è peggio di così!... È peggio della sfiducia. È la presunzione di aver trovato un nuova visione, un nuovo approccio più corretto, mentre è una semplice corbelleria. Si ha la presunzione di distruggere l’algebra, e anzi la matematica, e di sostituirla con una matematica algoritmica e tabellare, in nome di un preteso progresso: la didattica per competenze e abilità!...

Tutta la miseria di questo approccio si manifesta nella sua geometrica impotenza concettuale, che non soltanto crea studenti disabili ma distrugge la cultura degli insegnanti. Mi guardo bene dall’offendere insegnanti che pensano a quel modo, ma dico loro amichevolmente e anche in modo accorato: ripensateci, riflettete. State mettendo in opera un disastro didattico e così storpierete le menti dei ragazzi soltanto per dar retta a qualche pedagogo ignorante che vi vuol convincere che così sarete più “avanzati”.
Sia chiaro, Si può anche sostenere con fondamento che le manipolazioni dell’algebra sono repulsive, meccaniche (è la parola che ho usato prima) e spesso conducono a una didattica manipolativa e ripetitiva. Infatti, l’errore didattico peggiore che si può fare è anteporre l’insegnamento dell’algebra a quello della geometria e dell’aritmetica. Soltanto dopo aver studiato e compreso a fondo geometria e aritmetica ha senso ricorrere alla potenza manipolativa dell’algebra. Ma allora si è abbastanza maturi, e si è entrati nel cuore della “sostanza” della matematica – numero e spazio – per apprezzare l’utilità dell’algebra nel risolverne i problemi. Come per primo ha insegnato Descartes nella sua “Géométrie”. E come hanno fatto generazioni e generazioni dopo di lui, creando strumenti di straordinaria potenza. Oppure, in nome dell'ideologia delle  "competenze", dovremo regredire a un’algoritmica più rozza di quella cinese medioevale, una matematica che i cinesi per primi si guardano bene dall’insegnare e praticare?
Quanto alla soppressione del simbolo = , stendiamo un velo pietoso.




BESTIARIO MATEMATICO n. IX
Discalculia in agguato


Una signora organizza una caccia al tesoro per un gruppo di bambini nascondendo dei cartoncini verdi, rossi e gialli. I verdi valgono 1, i rossi 2 e i gialli 3. Lo scopo del gioco consiste nel conseguire il massimo punteggio, trovando i cartoncini e sommando il loro valore. Una bambina osserva seria: «Questo gioco non si può fare». «Perché mai?», chiede la signora. «Perché non ci sono il segno “più” e il segno “uguale”. Le addizioni si fanno soltanto sul foglio col segno “più” e il segno “uguale”».

La storia è emblematica del disastro dell’insegnamento della matematica alle primarie: a quella povera bambina nessuno ha spiegato che le operazioni della matematica sono indipendenti dalla loro rappresentazione sul foglio e che esiste anche il calcolo mentale e, anzi, che questo precede tutto. Insomma, che esistono tanti modi di pensare i numeri e le operazioni tra i numeri, e poi che vi sono anche delle tecniche per eseguire le operazioni sul foglio. Quella bambina è pronta per essere classificata come “discalculica”, secondo la terminologia introdotta dalla legge sui Disturbi Specifici di Apprendimento che – come osservò un preside – sono in molti casi Disturbi Specifici di Insegnamento. Perché mai, si dirà, quella bambina rischia di essere classificata come “discalculica”? Perché rischia di cadere nella tenaglia di due errori: l’identificazione delle operazioni con procedure di incolonnamento su un foglio, e la credenza che se non si incolonna bene vuol dire che si è disturbati.

Di recente, nel corso di una manifestazione culturale, ho [Giorgio Israel] ricevuto in omaggio un libro intitolato “Il bambino, mente matematica”. Il curatore del volume me l’ha dato con imbarazzo, avendo ascoltato il mio intervento: «Non sarà d’accordo», ha detto. Così, ho cercato con curiosità perché mai non dovessi essere d’accordo. Vi ho trovato una definizione di matematica a dir poco discutibile: un pensiero procedurale che si svolge nello spazio e nel tempo. In fondo sembra una definizione ovvia: quale attività umana non si svolge nello spazio e nel tempo? Ma per altro verso quella definizione fasulla – la matematica non si riduce affatto a un pensiero procedurale – serve a identificare gli errori in matematica come conseguenza del fatto che le azioni necessarie nello spazio e nel tempo (le procedure) vengono fatte in modo scombinato, dislocato. Chi fa errori (chi non “procede” bene) ha disturbi spazio-temporali, di “disorganizzazione motoria”. Guarda caso, gli esempi che vengono dati di “discalculia” (e non soltanto in quel libretto) sono prevalentemente disturbi di incolonnamento delle cifre o di non mettere al posto giusto i simboli + e =, o la linea che viene sopra il risultato della somma.

Un tempo questo genere di problemi era raro in quanto i bambini venivano abituati ad incolonnare correttamente i simboli con l’esercizio delle famigerate “aste”. Riempiendo pagine e pagine di “aste” e “tondi” non soltanto si familiarizzavano con le componenti grafiche di base della scrittura, ma si abituavano a incolonnare correttamente e a rispettare delle distanze fisse tra i simboli. Oggi è vietato persino parlarne: la pedagogia “moderna” vi classificherebbe subito come beceri reazionari. Il guaio è che qualcosa bisogna pur fare per insegnare a incolonnare, non è una cosa naturale, e basta osservare i nostri bambini per constatare che non lo sanno fare. E così sono pronti a cadere nella tenaglia di quei buontemponi che credono che la matematica si riduca a incolonnamenti e che chi non sa incolonnare è un disturbato. Buontemponi si fa per dire, perché le conseguenze concrete sono molto gravi.

Un altro esempio di bambino disturbato che viene proposto dai nostri buontemponi è il seguente: si tratta del bambino che, richiesto di scrivere “quattrocentotrentasei”, scrive 400306. Disturbato? In realtà, disturbato è chi gli ha fornito un insegnamento incompleto e ancor più chi lo ritiene tale. Il poverino ha capito benissimo il meccanismo dello “zero operatore”, ovvero che, per rappresentare un certo numero di decine, basta mettere uno zero dietro quel numero; per un certo numero di centinaia occorre mettergli dietro due zeri, e così via. Così, se voi gli dite “quattrocentotrentasei” lui scrive molto correttamente in sequenza prima 400, poi 30 e poi 6. In tal modo, attraverso il suo errore ha dimostrato di aver compreso in modo profondo l’idea complessa di “zero operatore”. Possiamo quindi senz’altro dire – in barba ai nostri pedagogisti-psicologi – che ha dimostrato di avere tutte le doti per comprendere il passo successivo, e cioè come si rappresentano i numeri in notazione posizionale e cioè come si raggruppano assieme quelle tre cifre. Questo, chiaramente non glielo saputo spiegare nessuno. Ma per i nostri specialisti lui è un prototipo di “discalculico”, con tutto il corteo di conseguenze: diagnosi da parte di uno psicologo, identificazione di procedure didattiche speciali, quattrini che se ne vanno da ogni parte, e lo stato psicologico della famiglia e del bambino che vanno a pezzi. E oltretutto per colpa di persone che in materia di matematica meritano il cappello d’asino perché ne danno definizioni grottesche, non sanno che il pane quotidiano della matematica è l’errore, e la pratica dell’errore non è un “disturbo”, una malattia, bensì il percorso normale attraverso cui si apprende la matematica.

Giorni fa ascoltavo tre signore che in metropolitana discutevano accalorate del problema dei bambini discalculici, con un tono da specialiste della materia. Protestavano: «Le gente non si rende conto che sono bambini normalissimi, come tutti gli altri, anzi, spesso più intelligenti degli altri, solo che hanno questo “problema di apprendimento”». Certo, è proprio così, nella stragrande maggioranza dei casi sono bambini come tutti gli altri, classificati come “disturbati” con diagnosi fasulle basate su teorie fasulle. Avrei voluto dire a quelle signore: «Proprio così, sono quasi sempre bambini normalissimi; guardatevi piuttosto allo specchio per rendervi conto che i problemi stanno nella vostra testa e non in quella dei bambini».






BESTIARIO MATEMATICO N. X
Un quesito "matematico" al concorso per presidi


Consideriamo la “batteria” delle domande a quiz per la preselezione al concorso del 2012 a dirigente scolastico:

Quesito n. 151 dell’area 4.
Quale proprietà del numero possiede il voto scolastico?
Risposta A (esatta): La proprietà ordinale
Risposta B : La proprietà cardinale
Risposta C: La proprietà commutativa
Risposta D: La proprietà transitiva

Ogni commento dovrebbe essere superfluo. E comunque:
Esistono espressioni per pronunciare i numeri che chiamiamo cardinali (uno, due, tre,…) e espressioni che chiamiamo ordinali (primo, secondo, terzo,…). Si può parlare di numeri cardinali e ordinali. Ma è quantomeno bizzarro parlare di “proprietà” cardinali o ordinali “del numero”, per giunta al singolare…. Sì, lo sappiamo che in docimologia si usa dire che le valutazioni scolastiche (discreto, buono, ottimo, ecc.) sono “proprietà ordinali” che si riflettono nella rappresentazione numerica. Ma questa è subcultura che sopravvive soltanto in certi sottoscala universitari in cui ai poveri studenti viene imbottita la testa con nozioni che si ammantano di “rigore matematico”, mentre si tratta di pura e semplice prostituzione della matematica.
Si poteva chiedere: «Quando si esprime una valutazione in numeri cosa si rappresenta?». A) Un ordinamento di valori; B) Una determinazione assoluta; ecc.
Già, veniamo all’eccetera… Che cos’è la proprietà “commutativa” “del” numero? Proprietà commutativa rispetto alla somma o al prodotto? E che diamine potrebbe mai significare la somma o il prodotto di due voti scolastici? E quanto alla proprietà transitiva, poi? Qui siamo alla follia. Transitiva rispetto a che? Rispetto all’ordinamento? In tal caso, sarebbe pur vero: 2 è un voto minore di 4 , 4 di 6 e anche 2 è minore di 6… Oppure proprietà transitiva dell’uguaglianza? O che diamine altro?
Ma si dirà: queste sono risposte “sbagliate”, “assurde”, sono dei “distrattori”, per vedere se uno ci casca.
Già, ma proprio questa è una caratteristica dei test imbecilli: proporre in alternativa alla domanda giusta delle risposte insensate, pazzesche, deliranti, che neppure un ignorante potrebbe dare. Poiché anche la domanda giusta è formulata in modo assurdo, se ne desume che questo quesito mira a determinare se ci troviamo di fronte a un ignorante di quart’ordine o a un assoluto deficiente, neppure meritevole del cappello d’asino.
Bella alternativa per un dirigente scolastico…

Non aggiungiamo altro, se non che qualcuno è stato pagato per compilare simili quesiti e qualcuno ha scelto questa persona, gli ha dato l’incarico e ha proposto quesiti del genere senza neanche controllarli, o peggio ritenendoli accettabili.
Parliamo di valutazione, di merito, di premiare il merito?
E allora bisognerebbe chiedere conto a chi ha organizzato questa vergogna del suo sperpero di denaro pubblico. Altrimenti, predicare di valutazione e di rigore meritocratico a chi deve essere valutato con questi metodi, mentre chi organizza questo circo la fa franca, è il colmo dello scandalo.
N.B. A ben vedere, questo non è l'unico quesito in cui spunta in modo demenziale la matematica. Per esempio, si dice che "la proprietà commutativa dell’addizione non è una competenza cognitiva mentre lo è rappresentare graficamente l’andamento di un fenomeno". Anche qui, no comment.





BESTIARIO MATEMATICO n. XI
Exploits matematici dell'Ente chiamato a presiedere la valutazione dell'università e della ricerca scientifica


La sconcertante sceneggiata del calcolo delle mediane per l’abilitazione nazionale universitaria è giunta, con il comunicato del 14 settembre a un livello tale che ogni persona ragionevole non può che considerare finale. La decenza imporrebbe di abbassare il sipario e di congedare gli “attori”. Quali, non è chiaro, visto che l’Anvur ha chiamato in causa il Ministero, e quindi il Ministro, e il Ministero tace.
Questo comunicato è un imbarazzante documento che è stato commentato dettagliatamente nel sito Roars.
Noi qui vogliamo contenerci entro la cornice dei “bestiari matematici”, per commentare il seguente impagabile passaggio:

« Il terzo motivo di incertezza è costituito dal fatto che il DM 76 (art. 1 lettera p) definisce il concetto di mediana come “il valore di un indicatore o altra modalità prescelta per ordinare una lista di soggetti, che divide la lista medesima in due parti uguali”. Questa definizione, pur univoca, lascia però un importante punto di ambiguità nella decisione su come procedere se la mediana viene usata per selezionare tra una serie di soggetti (i docenti), nel caso in cui più soggetti abbiano lo stesso valore mediano. In altre parole, se più soggetti hanno lo stesso valore dell’indicatore e questo corrisponde alla mediana, non vi sono criteri per creare tra di essi una lista ordinata. Questa circostanza è aggravata dal fatto che il decreto dispone (agli allegati A e B) che per soddisfare il criterio i soggetti devono avere valori degli indicatori “superiori” alla mediana, e non superiori o uguali. Diviene quindi, di fatto, impossibile utilizzare il valore mediano così definito come separatore tra il 50% inferiore ed il 50% superiore di un insieme di soggetti, e ciò sostanzialmente contrasta con una possibile interpretazione dello spirito del decreto, ciò quello di consentire la partecipazione alle commissioni a quei professori ordinari che si trovano, rispetto ad almeno uno o due (a seconda dei settori concorsuali) dei parametri considerati, nel 50% superiore rispetto all’insieme. In linea teorica, potrebbe darsi il caso, per distribuzioni particolari, di un numero di soggetti che superano la mediana pari a zero, o in ogni caso molto piccolo. Ciò accade quando una elevata proporzione dei soggetti si trova con lo stesso indicatore, e questo rappresenta proprio il valore mediano. Per i motivi sopraccitati, e anche per i limiti delle persone coinvolte (“errare humanum…”), le tabelle con i valori numerici delle mediane degli indicatori sono state pubblicate in più riprese, e anche con errori».

1 — L’Ente Supremo preposto alla valutazione dell’università e della ricerca propone il seguente nuovo concetto: quello di definizione univoca che lascia punti di ambiguità. Noi, poveracci, abituati all’aridità del pensiero matematico, avevamo l’idea rozza che, se una definizione è univoca, non dà luogo ad ambiguità, essendo questo tipico delle definizioni non univoche. Non ci era venuto in mente che potessero esistere definizioni univoche e al contempo ambigue. Siamo di fronte alla più grande scoperta della logica, dai tempi del teorema di Gödel, e – poteva essere altrimenti? – essa è opera del supremo Presidium della scienza italiana.

2 — A noi risultava che la definizione di mediana fosse la seguente: dicesi mediana di una variabile aleatoria, posti i suoi valori in ordine di grandezza crescente, il valore centrale dei dati se il numero dei dati è dispari, o la media aritmetica dei due valori centrali, se il numero dei dati è pari. Ora la definizione del DM 76 è che la mediana è un indicatore che divide la lista medesima in due parti uguali. Se il numero dei dati è dispari non c’è problema: l’indicatore può essere scelto come il valore centrale dei dati. Se i dati sono 101, sarà il cinquantunesimo: 50 da un lato, e 50 dall’altro. Per esempio, la mediana della sequenza 1, 2, 2, 3, 5 è 2. Ma se il numero dei dati è pari che si fa? Qualsiasi numero compreso tra i due valori centrali va bene… Se la sequenza è 1, 2, 3, 5, vi sono infiniti valori che che dividono la lista in due parti uguali. Potrebbe essere 2.1 come 2.3, 2.5 oppure 2.8 ecc. ecc. La definizione classica evita questa ambiguità prescrivendo di scegliere come “mediana” la media aritmetica dei due valori centrali, ovvero, nell’esempio citato 2.5. Insomma, a meno che i due valori centrali non siano uguali, la definizione del DM non è per niente univoca. E quindi è ambigua. Perché non univoca. Ci sarebbe da commentare ancora. Difatti, noi abbiamo ragionato sui numeri della sequenza, ma qui si parla di “valore di un indicatore”. Che vuol dire? Che si potrebbe scegliere un indicatore numerico esterno alla sequenza? Peggio ancora: si apre la strada ad “altra modalità prescelta”. Quale, di grazia? Qui, altro che univocità, non dispiaccia all’Ente Supremo. E altro che ambiguità. Siamo in presenza di una vera bruttura.

3. — Chi ha scritto quella definizione? Dal comunicato dell’Anvur si desume che non è l’Agenzia, ma qualcun altro. Sarebbe interessante sapere chi, visto che tutte queste cose sono fatte a spese del contribuente. Ma quel che è impagabile è: (a) che l’Anvur si produca in una duplice baggianata: dare per univoca una definizione che non lo è, e ribaltare la logica elementare introducendo il concetto di definizione univoca ma ambigua; (b) scoprire soltanto ora, dopo che da almeno un anno sta torturando l’universo mondo con questa immensa bufala della mediana, che la definizione con cui sta misurando la qualità di migliaia di professori universitari è fasulla. Forse siamo di fronte a qualcosa che oltre ad essere esibizione di incompetenza è materia da Corte dei Conti.

3 — Leggiamo la seguente frase che si presta a una sola definizione “univoca”: «Se più soggetti hanno lo stesso valore dell’indicatore e questo corrisponde alla mediana, non vi sono criteri per creare tra di essi una lista ordinata»… Ma pensa un po’… E chi se l’era immaginato? Se prendo la sequenza dei numeri 3, 3, 3, 3, 3, 3 non c’è modo di metterli in lista ordinata, perché – accidenti – sono tutti uguali. Per esempio, se metto il primo 3 al posto del secondo, mi viene sempre fuori 3, 3, 3, 3, 3, 3. Un vero problema, e ci volevano mesi per scovare questa difficoltà. Saranno diventati calvi per lo sforzo di scoprirla. Anche qui siamo di fronte a una scoperta matematica che rivolta da cima a fondo l’aritmetica dai tempi dei Greci. Tralasciamo il resto delle considerazioni perché confessiamo umilmente di averle rilette una decina di volte senza capirci un acca, anche perché la sintassi e la grammatica non aiutano. Si dice: «… potrebbe darsi il caso, per distribuzioni particolari, di un numero di soggetti che superano la mediana pari a zero, o in ogni caso molto piccolo». Chi è molto piccolo? Lo zero? Uno zero molto piccolo è una novità, ma non ci sarebbe da stupirsi, qui siamo di fronte a continue scoperte rivoluzionarie. Oppure un numero di soggetti molto piccolo? Perché? E, soprattutto, perché mai “in ogni caso”? Forse perché le distribuzioni sono particolari? E quali sarebbero queste distribuzioni particolari? Oppure molto “piccolo” è il mediana? Ma anche così non si capisce niente. Ci sfugge anche il concetto di “elevata proporzione di soggetti”, ma lasciamo perdere. L’unico commento chiarissimo è quello finale: le tabelle sono state pubblicate a più riprese e con errori («errare humanum», e anche se non ci credete l’Anvur è composto da esseri umani), per i motivi anzidetti e  «per i limiti delle persone coinvolte».

Ah, questo è davvero il punto più chiaro e condivisibile. Limiti pesanti, non c’è che dire.

Bene, tutto questo sarebbe materia per quattro risate se non fosse il prodotto del lavoro di un Comitato di “luminari” chiamato a valutare l’università e la ricerca scientifica italiane. E se questo lavoro non fosse costato un patrimonio, in un momento in cui l’università è soggetta a tagli pesanti (sui quali, per il modo con cui vengono fatti, ci sarebbe molto da dire). I commissari dell’Ente Supremo prendono circa 180.000 euro l’anno ciascuno (200.000 il presidente) per scrivere questi documenti, senza contare le retribuzioni dei dirigenti e dell’amministrazione, i compensi ai “valutatori” ingaggiati e quel che sarà costato l’uso dei database ISI e Scopus per calcolare le mediane di migliaia di professori universitari, la classificazione delle riviste e il calcolo della terza mediana.

Ma, come è stato detto, ANVUR NON POTUTO FARE ALTRO…
Fa venire in mente la canzoncina del film di Alberto Sordi: «Bongo, bongo, bongo, stare bene solo al Congo, io rimango qui…»
Quando questa storia si saprà all’estero – e si saprà – affonderemo nel ridicolo universale.

Ed ecco un altro capolavoro:
Riguarda un passo delle FAQ sugli indicatori bibliometrici che si trova sul sito dell’Anvur (http://www.anvur.org/?q=it/content/faq-indicatori). Eccolo:

«Come si applicano le mediane ai fini del superamento delle stesse?
Il DM 67 specifica che ogni indicatore si intende superato se il soggetto presenta un valore maggiore della rispettiva mediana. Il dettato della norma va inteso nel senso di strettamente maggiore. In pratica se l’indicatore è frazionario, si intende la frazione superiore, troncata alle due cifre decimali (es. se il numero di citazioni normalizzato ha mediana 12,25, passano il criterio coloro che hanno un indicatore di 12,26 o superiore). Se l’indicatore è per costruzione un numero intero, come nel caso dell’ h contemporaneo, si intende l’intero superiore.»

Esaminiamo questo brano che descrive bene le “competenze” anvuriane. Assioma (per decreto): un soggetto verifica i requisiti se supera strettamente il valore della mediana di riferimento. Quindi, il “suo” indicatore numerico deve essere strettamente maggiore della mediana di riferimento e non uguale ad essa (non ≥ ma >).
Ora, si dice che, se i valori sono per costruzione (sarebbe meglio dire “per definizione”, ma lasciamo perdere) numeri interi, l’indicatore deve essere il numero intero superiore alla mediana: se la mediana è 2, l’indicatore deve essere almeno 3. (Come è scritto qui sembra che debba essere proprio 3, ma lasciamo perdere, la precisione di linguaggio non è un cavallo di battaglia anvuriano). E fin qui è tutto chiaro.
Ma che succede se la mediana è un numero frazionario? Anche in tal caso, occorre superarla, e si dice che il numero che la supera è la frazione superiore.
Ah, questa è bella davvero! All’Anvur (che pure conta dei laureati in materie scientifiche) non sanno che non esiste “la” frazione “superiore” di una frazione data. Difatti, tra un numero come 12,25 e 12,26 vi sono infiniti numeri frazionari e se prendo uno qualsiasi di questi, anche uno vicinissimo a 12,25, tra lui e 12,25 ve ne sono ancora infiniti, e così via. Insomma, l’insieme dei numeri razionali (a differenza degli interi) è denso. (Non è continuo, ma è denso, ma non addentriamoci in concetti troppo complicati).
Insomma, a quanto pare, all’Anvur non sanno cosa siano i numeri razionali…
Si dirà: ma no, hanno chiarito tutto con la faccenda delle frazioni "troncate". Ma il problema è proprio nella "troncatura"! La legge è chiara: si accede se si supera strettamente la mediana. Quindi, se la mediana è 12,25 = 1225/100, e se il mio indicatore è 12,251 = 12251/1000, esso è strettamente maggiore di 12,25 (12,251 = 12251/1000 > 12250/1000 = 1225/100 = 12,25) e quindi, a norma di legge sono ammesso.
L’Anvur “tronca” al secondo decimale. E chi l’ha autorizzata a far questo? E per giunta a fare un'operazione (la "troncatura") di una grossolanità sesquipedale? E per giunta definita con i piedi.
Già, perché se volessimo prendere la frase alla lettera, ci si dice che si sarebbe ammessi con il valore della "frazione superiore troncata alle due cifre decimali": allora, siccome 12,251 è maggiore di 12.25, "troncando" si ottiene che si è ammessi con 12,25 (ovvero 12,25 > 12,25). Esilarante.
Ma no, siamo seri con 12.25 non si passa. Fedeli al dettato anvuriano, esaminiamo il caso in cui la mediana sia 12,25 e una persona abbia come indicatore 12259/1000 = 12,259. L’Anvur “tronca” e quindi con 12,25 la persona non passa. Se ha 122599/10000 = 12,2599, l’Anvur tronca e non passa lo stesso. Se ha 1225999/100000 = 12,25999, l’Anvur tronca e neppure passa. E così via… Però un’altra persona che ha 1226001/100000 = 12,26001, “troncando” avrebbe 12,26 e quindi passa.
Semplicemente ridicolo.
Casomai, se si fosse voluto rendere l’indicazione meno grottesca, occorreva interpretare la “troncatura” nel senso di approssimazione per difetto e per eccesso (come è d’uso). In tal caso, una persona che ha 12253/1000 = 12,253 viene approssimata a 12,25 e quindi non passa perché non supera strettamente la mediana. Invece, il signore che ha 12259/1000 = 12,259 viene approssimato a 12,26 e passa.
Sarebbe stato meno assurdo. Ma sarebbe stato comunque contrario allo spirito del decreto che, parlando di «valore maggiore della mediana», implica che chiunque abbia un valore maggiore della mediana, anche per una quantità piccola a piacere, è ammesso. Sarà ridicolo anche questo, ma sono i numeri, bellezza (Humphrey Bogart dixit)… Avete voluto la bibicletta numerica, pedalate.
Domanda: che indicatore ha chi manipola numericamente l’intero sistema dell’università e della ricerca italiane e non conosce le proprietà dei numeri razionali?




BESTIARIO MATEMATICO N. XII
Gli "indicatori topologici"...


Tempo fa ho [Giorgio Israel] partecipato a un dibattito in una scuola e, prima dell’inizio, discorrevo con la dirigente scolastica. Si è parlato dell’insegnamento della matematica e ho deprecato il diffondersi di approcci assurdi come il credere che un’introduzione alla “spazialità” e alla geometria sia l’approfondire i concetti di “sopra/sotto”, “davanti/dietro”, “destra/sinistra”, “dentro/fuori”.
«Certo!», ha osservato la dirigente, «sono gli indicatori topologici».
Sono rimasto senza fiato perché era il segno che, se si permetteva di fare con tanta sicumera una simile affermazione davanti a un laureato in matematica, voleva dire che ormai l’attribuzione a quelle coppie di quella denominazione e la considerazione di questa tematica come centrale nell’introduzione della visione geometrica a scuola, sono diventate un’ovvietà.
Eppure, appena si dice a un matematico propriamente detto che è d’uso chiamare “indicatori topologici” le coppie “sopra/sotto”, ecc., inorridisce.
Nessuno di quei concetti ha a che fare con la topologia che è basata sul concetto di “intorno” o di “vicinanza”. L’obiezione – fatta da alcuni – che il termine viene usato in un senso ad hoc è inaccettabile: se non si rispetta il senso accettato delle parole, allora tutto il linguaggio diventa puro arbitrio e, oltretutto, quale sarebbe questo senso ad hoc? Nessuno è in grado di dirlo.
L’unica cosa che si pretende – e che giustifica in modo confuso la denominazione di “indicatori topologici” – è che si tratterebbe di un modo di avviare alla comprensione della spazialità, e quindi al pensiero geometrico. Ed è quello che ha guidato gli ignoranti che hanno scritto le Indicazioni nazionali per il primo ciclo, quando hanno legittimato l’uso di queste coppie nel senso anzidetto.
Ma vediamo meglio.
Il senso “corporeo” della spazialità ha ben poco a che fare con la geometria, che è nata e si è sviluppata astraendo dall’osservazione degli oggetti e costruendo un mondo di enti ideali governati da proprietà e regole generali e che viene esplorato mediante la deduzione di teoremi a partire da quelle proprietà generali.
“Sopra/sotto” non è un concetto geometrico, o matematico che dirsi voglia. Esso ha un carattere strettamente antropocentrico. Il sopra è diverso e irriducibile al sotto perché non posso camminare con la testa e quindi le due posizioni sono per me non equivalenti. Ancor più evidente è la cosa col “davanti/dietro”: se avessi due occhi dietro la testa non esisterebbe alcuna differenza tra il davanti e il dietro, sarebbero perfettamente equivalenti. Invece, sono distinti e irriducibili e forse lo rimarrebbero anche se avessi due occhi dietro, perché non è per me equivalente camminare in avanti o all’indietro. Peggio ancora per il “destra/sinistra” che indica un privilegio di un lato rispetto all’altro, che peraltro viene rovesciato nei mancini, e comunque fa riferimento a una dissimetria. Forse il “dentro/fuori” è l’unico dualismo che sembra trovare qualche contatto con la topologia, ma soltanto a uno sguardo superficiale, perché il concetto di punti interni di un insieme in topologia è molto diverso dal “dentro/fuori” della spazialità del “mondo della vita”, in quanto si riferisce a una nozione di insieme “aperto” e “chiuso” che si allontana dall’intuizione comune.
In matematica, il “destra/sinistra”, il “davanti/dietro” ecc. possono essere introdotti, in particolare quando si definisce un orientamento sulla retta, oppure quando si definisce un verso di rotazione (levogiro o destrogiro), ma si tratta di distinzioni puramente convenzionali, che non hanno alcun carattere sostanziale come lo hanno invece questi concetti nel “mondo della vita”. Definire un’orientazione sulla retta è una mera convenzione che può essere rovesciata senza problemi. Non esiste il sopra e il sotto di una figura geometrica, se non in relazione a un modo di vedere gli oggetti di una persona: proprio qui si vede la differenza tra lo sguardo di una persona nel “mondo della vita” e lo sguardo geometrico. Non esiste il davanti e il dietro di una piramide.
Può aver senso approfondire nel bambino, in età prescolastica, le nozioni dello spazio posturale e dello spazio rappresentativo ma guai a confondere tutto questo con l’introduzione ai concetti della geometria come parte della matematica. 
Come abbiamo scritto in Pensare in matematica:

«... bisogna ricordare che, anche nel bambino, lo spazio rappresentativo è diverso dallo spazio geometrico. Va sottolineato con chiarezza che “davanti/dietro”, “destra/sinistra” sono categorie importanti nello spazio posturale ma prive di significato geometrico; e lo stesso può dirsi di categorie della vita quotidiana come “dentro/fuori”, “sopra/sotto”. Per quanto riguarda la coppia “destra/sinistra”, oppure il senso “orario/antiorario”, in geometria si introducono proprietà di orientazione (segmenti, angoli e triangoli orientati, semiretta o semipiani opposti) nel senso che è possibile distinguere due versi opposti. Ma non esiste un’orientazione geometrica privilegiata, che distingua in modo assoluto tra “destra” e “sinistra” o tra “antiorario” e “orario”. Dal punto di vista geometrico, si tratta di scelte puramente convenzionali, come decidere cosa sta “sopra” e cosa sta “sotto”; mentre nel mondo della vita “sopra” e “sotto” non sono intercambiabili. Intervenire su queste dicotomie può rivestire importanza nella educazione e nell’istruzione del bambino, ma è del tutto estraneo al pensiero geometrico e alla formazione geometrico-matematica.
Le concezioni geometriche del bambino hanno un punto di appoggio fondamentale nella sua esperienza, ma l’apprendimento della geometria si allontana dall’esperienza; anzi, parafrasando Poincaré, possiamo dire che, se non se ne allontanasse, la conoscenza che la geometria offrirebbe dello spazio sarebbe approssimativa e provvisoria! Viceversa, con la scolarizzazione, le conoscenze geometriche acquisite dai bambini e dai ragazzi condizionano il loro spazio rappresentativo, orientandolo verso la condivisione di concezioni dello spazio tipiche delle scienze, della tecnologia e, in generale, della cultura moderna. Si può anche ritenere che questo sia un fatto negativo, preferire un approccio qualitativo che escluda l’astrazione e il quantitativo e sognare il ritorno a un mondo antecedente Euclide, per non dire Cartesio o Hilbert. Ma allora bisognerebbe avere la coerenza di rigettare in toto l’insegnamento scientifico. Quel che è sbagliato e inaccettabile è di far credere che si possa introdurre alla scienza seguendo un percorso ad essa contrario; è di gabellare per formazione scientifica qualcosa che va nella direzione opposta e, di fatto, smantella la possibilità di formare una mentalità propriamente scientifica».
Per questo, questa faccenda degli indicatori topologici, inclusa la loro menzione nelle Indicazioni nazionali, merita di essere inclusa in un Bestiario matematico.

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