venerdì 24 gennaio 2014

QUALE MATEMATICA INSEGNARE?

Relazione al Convegno “La formazione degli insegnanti di Matematica. Italia ed Europa a confronto
Pristem/Storia. Note di matematica, storia, cultura, vol. 36-37 (a cura di L. Catastini, F. Ghione, E. Rogora), dicembre 2013, pp. 147-157


La condizione della matematica nell’insegnamento contemporaneo – non soltanto in Italia – manifesta un singolare paradosso: mai la materia è stata tanto detestata e denigrata come noiosa, incomprensibile, esoterica, disumana, e mai è stata tanto esaltata come imprescindibile, pervasiva, necessaria in ogni aspetto delle attività lavorative e della vita in generale.
Questa condizione ambivalente è stata bene descritta anni fa da un giornalista, Francesco Merlo, che ha scelto decisamente di schierarsi su uno dei due poli, quello del rigetto:

«… il successo di Harry Potter non dimostra la crisi della matematica in Occidente, ma al contrario il suo trionfo. Harry Potter, con il suo straordinario “realismo magico”, è l’uscita di sicurezza dall’ossessione della matematica dalla quale si può evadere solo con la letteratura o con il brutto voto a scuola. La matematica, infatti, è l’anima della Tecnica contemporanea, dal frullatore al frigorifero, ma anche del parlare, perché persino il più spontaneo e il più incolto parlare è strutturato in regole rigorose, dentro quella matematica che già il grande matematico Bertrand Russell, con un’autoironia povera di seguaci, definiva “la sola scienza esatta in cui non si sa mai di che cosa si sta parlando né se quello che si dice è vero”». (F. Merlo, “Ma siamo un popolo di grandi calcolatori”, La Repubblica, 3 agosto 2007)

Merlo ha preso una posizione talmente polemica da definire la letteratura e persino il brutto voto a scuola come la risorsa per sfuggire dall’ossessione della matematica. Sarebbe facile, e in parte giustificato, liquidare tutto ciò come un contributo alla nefasta contrapposizione tra le due culture. Ma gli anatemi non servono a nulla e non è detto che Merlo abbia tutti i torti soprattutto se si pensa a un certo modo di concepire la matematica e di insegnarla. A ben vedere, Cartesio non si era espresso in termini molto diversi qualche secolo fa:

«… non mi stupivo del fatto che la maggior parte degli uomini d’ingegno e di scienza, dopo esser entrati in contatto con queste scienze [l’aritmetica e la geometria], le trascurino subito come puerili e vane, o al contrario si spaventino fin dall’inizio, all’idea di apprenderle, tanto sono difficili ed intricate. Poiché in verità niente è più vano dell’occuparsi di numeri vuoti e di figure immaginarie, fino al punto di sembrare volersi compiacere della conoscenza di simili bagattelle; e niente è più vano che fissarsi su queste dimostrazioni superficiali, che si conseguono più spesso per caso che tramite il metodo, e che fanno appello agli occhi e all’immaginazione più che all’intelletto, fino al punto di disabituarsi all’uso della ragione; e nello stesso tempo nulla è più complicato che mettere in luce con un metodo siffatto le nuove difficoltà che sono nascoste dalla confusione dei numeri. Ma quando, in seguito, mi chiesi da che cosa dipendeva il fatto che i primi filosofi non volessero ammettere allo studio del sapere coloro che ignoravano la matematica, quasi che questa disciplina fosse per loro la più facile e la più necessaria di tutte per formare e preparare gli intelletti a comprendere altre scienze più elevate, mi convinsi che essi conoscevano una matematica molto diversa dalla matematica volgare del nostro tempo» (R. Descartes, Regulæ ad directionem ingenii, (texte revu et traduit par G. Le Roy), Paris, Boivin, 1933, pp. 30-32.)

Difatti, la matematica intesa come un occuparsi di “figure immaginarie” o di “numeri vuoti” si presenta come uno sterile gioco dell’intelletto. E allora è inevitabile che un’attività vana e il cui senso è oscuro risulti difficile in quanto priva di interesse. Soltanto ciò che è interessante – che risponde a problemi importanti e vitali – può indurre a mettere in moto fino in fondo le capacità intellettive. A che pro’ spendersi per qualcosa che gira a vuoto su questioni vuote – tanto vale darsi all’enigmistica – o, tutt’al più, serve per problemi della vita pratica. Come allora, anche oggi non è una “matematica volgare” che può destare interesse, ma soltanto una matematica che è parte della cultura e risponde a problemi vitali per noi.
La matematica, dai tempi di Cartesio e, prima ancora, di Galileo, divenne interessante perché si presentò come lo strumento principe per comprendere l’essenza dei fenomeni naturali. Oggi, mentre la matematica è il substrato della tecnologia che domina la nostra vita quotidiana, sembra che si sia perso il senso del suo essere parte del sistema di conoscenza dell’uomo, e si prospetti come una forma di pensiero pratico, qualcosa di “volgare” e, in definitiva, noioso e assai meno stimolante di un romanzo o persino di un videogioco (che pure è costruito con la matematica).
È difficile non rendersi conto che questo esito paradossale è frutto di un modo sbagliato di concepire la posizione della matematica nella cultura e nel pensiero e di modalità sbagliate nell’insegnarla. Di certo, gli ultimi decenni – dominati dall’ansia di rinnovare l’insegnamento della matematica, sia per adeguarlo alle nuove forme che essa aveva assunto sia per adeguarlo a una scuola di massa – hanno visto emergere l’idea paradossale che soltanto ora si inizi a capire come vada insegnata. La matematica è la scienza più antica, le cui origini affondano nella notte dei tempi. Generazioni e generazioni di uomini hanno appreso la matematica, l’hanno applicata con grande maestria, l’hanno fatta progredire e ne hanno trasmesso efficacemente contenuti e metodi. Eppure, da tempo ragioniamo come se nessuno abbia mai pensato a come insegnarla efficacemente, come se tutto quanto è stato fatto nel passato sia stato un errore, e che soltanto oggi si sia iniziato a costruire il modo corretto per insegnarla ed apprenderla. Se fossimo obbiettivi, a giudicare dai risultati, e a giudicare dallo scarso interesse, per non dire dall’antipatia, che circonda la matematica, dovremmo dire esattamente il contrario!
A ben vedere, le difficoltà hanno indotto a non vedere più chiaro circa la natura della matematica e, di conseguenza, sul modo corretto di insegnarla. Ci si è impigliati confusamente nel dualismo tra la matematica vista come scienza astratta e come pensiero e la matematica vista come attività pratica. Si è creduto superficialmente che insistere troppo sugli aspetti concettuali della matematica fosse la causa della sua difficoltà e della repulsione che desta nei più, non rendendosi conto che tagliare in due la cultura è il massimo errore dell’epoca moderna e, considerare all’interno della cultura scientifica la matematica come un’attività pratica non la rende più attraente, ma piuttosto mediocre e insignificante. Negli anni settanta vi è stata l’orgia dell’astrazione, della matematica assiomatica, dell’ossessione per la teoria degli insiemi. Rileggere oggi un libro come Algebra lineare e geometria elementare di Jean Dieudonné (tradotto da Feltrinelli nel 1970, con una prefazione di Angelo Pescarini) è come tuffarsi in un passato bizzarro e lontanissimo. Eppure sono passati soltanto quarant’anni. L’autore intimava di cancellare ogni figura dai manuali di geometria, proponeva di spazzare via persino dal linguaggio riferimenti a materie “desuete” come, la “geometria analitica”, la “geometria proiettiva”, la “trigonometria”, le “geometrie non euclidee”, e via dicendo. Proponeva un approccio assolutamente astratto e rigorosamente insiemistico. E il libro veniva presentato allora come l’avvenire dell’insegnamento della matematica.
Oggi tutto questo sembra archeologia, spazzato via dal fallimento clamoroso della “nuova matematica”; anche se il fallimento ha lasciato sul terreno molti detriti, almeno sul suolo italiano. Difatti, abbiamo conservato la pessima eredità di mettere dappertutto l’insegnamento della teoria degli insiemi, non avendo assimilato il principio fondamentale che questa teoria è priva di qualsiasi interesse e di qualsiasi valore (se non come una stenografia ausiliaria) se non in relazione alla considerazione della cardinalità degli insiemi infiniti, ovvero di una tematica che si affaccia poco nella scuola. Inoltre, da quel fallimento abbiamo tratto una conclusione completamente sbagliata: e cioè che l’approccio assiomatico fosse sinonimo di un approccio concettuale, mentre era esattamente il contrario, era lo svuotamento di contenuto degli enti matematici e quindi l’assenza di senso. Di questo errore è derivata la conclusione che, per superare gli inconvenienti derivanti dall’approccio astratto, occorreva andare a un approccio concreto, inteso nel senso più piattamente praticistico che si possa immaginare. È questa l’origine di quella trovata bizzarra che è la “matematica del cittadino”, ovvero la matematica che serve nella vita pratica quotidiana, a tenere il bilancio domestico e i conti bancari, nella dichiarazione delle imposte e in consimili attività concrete. La “matematica del cittadino” dovrebbe destare l’interesse per la materia, in quanto più vicina ai problemi della vita. È una visione della matematica che avrebbe riscosso il plauso di Benedetto Croce e della sua teoria secondo cui la matematica serve soltanto a scopi pratici e, per il resto, è un cumulo di pseudoconcetti privi di senso.
È davvero una buona risposta alle difficoltà isolare ulteriormente la matematica dalla cultura e dal pensiero e farne una sorta di prontuario per risolvere i problemi della vita quotidiana? A giudicare dagli esiti, la risposta è negativa.
In linea generale, quel che ha condotto certa didattica della matematica in un vicolo cieco è stato un atteggiamento sostanzialmente rinunciatario, che potremmo definire come l’insegnamento della paura. I concetti e le astrazioni sarebbero difficili e repulsivi? Si risponde con un approccio pratico, concreto. La matematica appare difficile? Si abbassa il livello, si indora la pillola, si avanza sempre più lentamente, magari insegnando alle primarie un numero al mese ed evitando alle scuole materne persino di menzionare la parola “numero”. Le tecniche matematiche risultano di difficile assimilazione? Si spezzettano in una miriade di definizioni, sempre nuove, sempre più numerose, in una casistica minuta.
Gli errori clamorosi di questo insegnamento della paura sono evidenti.
L’astrazione vuota è certamente repulsiva, ma chiunque abbia insegnato davvero sa che non c’è nulla che desti l’interesse dell’alunno come la sfida intellettuale, il sollevare problemi concettuali che hanno un senso, perché si ripropongono in ogni contesto e affondano nelle radici più profonde della psiche. Diceva il grande matematico Hermann Weyl che la matematica è la scienza dell’infinito. Di certo, la matematica ha sfidato come nessuna disciplina il tema dell’infinito ed è riuscita a trattarlo e manipolarlo, se pure non a dominarlo. Non c’è tema che sollevi più interesse di questo in un ragazzo, e persino (o forse ancor di più) in un bambino, e che diventa tanto più affascinante quando si riesca a spiegare che il segreto del successo della tecnologia sta proprio nella capacità di manipolare efficacemente l’infinito, e introdurre così il principio della standardizzazione. Ma la tematica dell’infinito non si lega soltanto a quella della tecnologia, bensì anche a problemi centrali nella riflessione filosofica e che, fin dai Pitagorici e da Zenone, hanno trovato nella matematica il loro terreno di elezione. Così si ritorna al legame tra matematica e cultura che è la chiave per destare l’interesse nella disciplina. La matematica non può essere isolata dalla cultura senza pagare un prezzo altissimo in termini di disinteresse: è per questo che nel nostro nuovo libro Pensare in matematica abbiamo intitolato il capitolo conclusivo “Restituire la matematica alla cultura” (G. Israel, A. Millán Gasca, Pensare in matematica, Bologna, Zanichelli, 2012).
Far comprendere l’importanza della matematica nelle applicazioni e nella pratica non implica affatto sostenere che la matematica debba essere ridotta a un “sapere pratico”. Non c’è cosa più sbagliata, e in modo devastante, che instillare la credenza – magari menzionando a sproposito un Galileo mal compreso – che la pratica venga prima della conoscenza scientifica e non far invece capire che la seconda è possibile soltanto in funzione della prima. Chi più di Leonardo da Vinci fu un grande “applicativo”, creatore e costruttore di macchine mirabolanti che ancor oggi stupiscono? Eppure Leonardo ammoniva: «Quelli che s’innamoran di pratica sanza scienzia son come ‘l nocchier ch’entra in navilio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada. Studia prima la scienzia, e poi seguita la pratica nata da essa scienzia». Questo occorre insegnare agli allievi e non il contrario, sottolineando che la matematica è proprio il nucleo portante di quella scienza da cui nasce la pratica.
Oggi va molto di moda sottolineare l’importanza del laboratorio e della pratica laboratoriale. Nessuno potrebbe seriamente dissentire. Magari le nostre scuole fossero tutte dotate di laboratori moderni ed efficaci! Ma nel laboratorio si deve entrare con una base teorica, con delle idee su cosa si vuole andare a cercare, a verificare o smentire. Non si entra in laboratorio per fare bricolage, per cercare a casaccio quel che non si sa neppure cosa sia: questo sarebbe soltanto gioco vanesio (perché anche un buon gioco segue delle regole), perdita di tempo e diseducazione delle capacità intellettuali. Non è vero che la scienza si sviluppa attraverso la mera osservazione. Come ha detto il famoso Nobel per Medicina Albert Szent-Gyorgyi (il padre della vitamina C), con un fulminante aforisma, «lo scoprire consiste nel vedere ciò che tutti hanno visto e nel pensare ciò che nessuno ha pensato». E la matematica è la disciplina che più di ogni altra ha contribuito a pensare ciò che nessuno aveva ancora pensato, pur osservando i fatti.
Sappiamo bene quanto una delle cose più odiose e insopportabili della matematica siano le pratiche calcolistiche ripetitive e meccaniche. Di certo, se si vuole apprendere a risolvere un’equazione di secondo grado, occorre esercitarsi a farlo in un numero ragionevole di casi, ma non è possibile ridurre tutto a esercizio senza rendere la materia insopportabile. Occorre assimilare le tecniche con un apprendistato ragionevole e non soffocante e concentrare l’attenzione sui problemi. Ma il paradosso è che concentrare l’attenzione su un approccio pratico riduce troppo spesso i problemi a esercizi ripetitivi, a tecniche vuote e noiose e quindi a riproporre il difetto anzidetto. Del resto, che esista un’enorme confusione in merito, spesso provocata da persone che hanno una conoscenza indiretta e superficiale della materia, è indubbio. Come altrimenti potrebbe essere definita se non frutto di ignoranza e confusione la definizione della matematica come scienza procedurale che viene proposta da alcuni psicologi dell’apprendimento? È la stessa definizione che è stata addotta per legittimare l’uso dei test nella valutazione delle competenze matematiche e che ha sollevato sacrosante critiche; tanto che c’è chi è corso ai ripari dicendo che, anche nei test, occorre proporre una matematica argomentativa, come se potesse esistere una matematica che non si avvale di argomentazioni...
La semplicità e la ragionevolezza non sono mai disgiunte. L’idea di alleggerire l’insegnamento della matematica mediante nuove definizioni che frammentano e spezzettano i concetti è un altro errore clamoroso. Stiamo assistendo al sorgere di una casistica degna della peggiore scolastica medioevale. S’inventano proprietà che non esistono, come la “proprietà dissociativa dell’addizione”. Si trasformano i diversi approcci didattici in nuove definizioni, fino a parlare (come in un syllabus ministeriale) della “divisione per ripartizione” e della “divisione per contenenza” come due forme di divisione diverse di cui occorrerebbe addirittura dimostrare l’equivalenza... In realtà, dire che si tratta di casistiche degne della scolastica medioevale è ingeneroso: uno dei più grandi scolastici, Guglielmo di Occam, enunciò un principio che occorrerebbe scolpire nella pietra per chi si occupa di didattica della matematica: Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem, gli enti non vanno moltiplicati al di là del necessario.
Un altra forma degenerativa nella didattica della matematica contemporanea è rappresentata dallo sviluppo di una teoria delle misconcezioni, che raggiunge livelli parossistici nell’elencazione, attraverso sterminate tabelle, di tutti i possibili errori in cui possono incorrere gli alunni, suddividendoli per categorie e tipi. Potremmo anche qui dire che si tratta di una forma di tardo-scolastica. Ma in realtà si tratta di peggio, e cioè della credenza che in matematica si possa espungere l’errore come la gramigna da un campo. È anche questo un portato deteriore della concezione assiomatica e dell’idea che la matematica sia una scienza puramente logico-deduttiva, mentre la matematica è una scienza intrisa di intuizione, di idee che non possono essere ricondotte a un approccio puramente formale ed esente da “errori”. Quel che non capiscono i teorici delle “misconcezioni” è che l’errore è il sale della matematica e che questa scienza si costruisce attraverso vie contorte che sono proprio la fonte della sua vitalità e che molto spesso la matematica giunge alla verità proprio attraverso l’errore. Se seguissimo la via delle “misconcezioni” per valutare la storia della matematica del passato dovremmo catalogare due secoli di storia della fondazione del calcolo infinitesimale come una sequenza di “misconcezioni”. Eulero, uno dei massimi matematici di tutti i tempi, ha prodotto una mole sterminata di risultati di enorme rilevanza basandosi sull’idea bizzarra (una vera “misconcezione”!) che il calcolo non sia altro che la determinazione del valore dei rapporti 0/0...
In linea generale, i vicoli ciechi in cui ci si è impantanati dipendono largamente dal fatto che si è smarrito l’equilibrio che deve intercorrere tra scopo formativo e concettuale e scopo pratico nell’insegnamento della disciplina. Si è insistito troppo sul secondo, al contempo mescolandolo con vizi formalistici e logicisti (abuso della teoria degli insiemi, matematica come scienza deduttiva, “misconcezioni”, ecc.), fino a slegare completamente la matematica dalla cultura e a farne una disciplina strana, a sé, che inevitabilmente provoca smarrimento e sconcerto. Basta rileggere un brano di Federigo Enriques per recuperare una visione equilibrata, di buon senso e sorprendentemente adeguata ai problemi della modernità. Egli parlava dell’«interesse  della società a diffondere largamente il possesso della cultura matematica e ad educare con questa larghi ordini di cittadini», e così proseguiva:

«Qui si affaccia di solito la domanda se all’insegnamento debba darsi piuttosto lo scopo formativo o informativo. Ma il dilemma è mal posto. Se coll’insegnamento informativo si intende di porgere all’allievo una serie di nozioni da accogliere passivamente come un dono, questo non ha ragion d’essere in alcun ordine di scuole, perché il dono di cosa estrinseca non arricchisce il povero che ne ignora l’uso: il maestro dona soltanto se stesso quando trascina e commuove e comunica qualcosa della propria vita al suo figlio spirituale.
L’acquisto della cultura suppone sempre l’apprendimento dell’uso che possa farsene; il quale esige la partecipazione attiva dell’educato, ed ha un valore formativo.
Il valore formativo delle matematiche si palesa, non soltanto nell’elevamento e nel potenziamento delle intelligenze che, traverso l’istruzione classica, vogliono abilitarsi ai più alti studi, sì anche nei primi gradi dell’educazione dell’infanzia e nelle classi popolari; perché l’intelligenza matematica è assai precoce. Due pedagogisti soprattutto hanno lavorato a portare le conoscenze matematiche nell’educazione del fanciullo, come elemento del suo sviluppo intellettuale: Pestalozzi e Fröbel. Il primo ammaestra “come Geltrude insegna ai suoi bambini”, indicando lor di buon’ora la consapevolezza dei rapporti di numero e misura, che essi debbono apprendere presto e con chiarezza. Il secondo, già nei suoi primi doni, nei giuochi e negli esercizi dei suoi giardini, offre ai fanciulli la visione delle figure geometriche e delle loro simmetrie, e li interessa ad osservazioni via via più difficili, con una progressione metodica che risponde ad un preciso disegno educativo. Per le scuole infantili come per le popolari, è soprattutto vero ciò che si osservava innanzi, che l’indirizzo formativo non si disgiunge dall’utilitario, che crea coll’interesse l’accoglimento delle cose insegnate» (F. Enriques, Le matematiche nella storia e nella cultura, Bologna, Zanichelli, 1938 (rist. 1986)).

Se si parte dall’acquisizione del fatto che conoscenza e utilità non possono essere contrapposte, e tantomeno la prima può essere considerata come un sottoprodotto della seconda, o addirittura come un aspetto marginale, tutto diventa più chiaro e semplice. Anche le tecniche, di per sé noiose e repulsive, possono essere rese accettabili e interessanti se rispondono a problemi e a tematiche che hanno un valore e un senso generale.
Naturalmente, occorrerebbe qui precisare in dettaglio, e con indicazioni concrete, che cosa significhi un insegnamento della matematica basato su un approccio culturale, che “restituisca alla matematica alla cultura”. Questo non può evidentemente essere fatto nello spazio ristretto di un articolo, ed è precisamente il compito che ci siamo preposti nel libro già citato, Pensare in matematica.
Ci limiteremo a sottolineare una questione di importanza centrale. La matematica si è sviluppata storicamente attorno a due temi: quello del numero e quello della forma che hanno dato luogo rispettivamente all’aritmetica e alla geometria. Si tratta di due “porte d’ingresso” alla matematica che seguono percorsi diversi, che la matematica moderna ha parzialmente conciliato ma che conservano un’autonomia di fondo. Questo fu compreso in modo profondo dai Greci antichi che scoprirono le difficoltà e i paradossi che nascono nella rappresentazione delle grandezze geometriche mediante numeri e che decisero di evitarli affrontando lo studio della geometria in modo sintetico, e cioè senza numeri. Naturalmente il prezzo che veniva così pagato era in termini pratici: la geometria sintetica non si prestava ad essere uno strumento per lo studio e la descrizione dei fenomeni fisici. La sintesi tra numero e geometria, realizzata attraverso la creazione della geometria analitica, ha aperto la strada alle applicazioni della matematica e al suo ruolo centrale nella fisica. Resta il fatto che, dal punto di vista concettuale, il continuo geometrico e il continuo numerico sono due cose diverse e, in fin dei conti irriducibili. Trattasi di una questione sottile e delicata che deve essere progressivamente affrontata nell’insegnamento della matematica, conservando una certa autonomia tra i due punti di vista e preservando un ruolo all’approccio geometrico sintetico, che si lega in modo profondo alla visione intuitiva dello spazio.
Pertanto, è fondamentale conservare l’ingresso alla matematica per le due porte distinte dell’aritmetica e della geometria, introducendo in modo progressivo e accurato il loro rapporto. Ne discende che l’approccio geometrico-sintetico deve conservare un ruolo importante nell’insegnamento. Va sottolineato, al riguardo, che la disciplina matematica che offre la gamma di problemi più variata, con una gradazione finissima di difficoltà, è proprio la geometria.
Al contempo, sarebbe profondamente errato far credere che lo sguardo della geometria si identifichi completamente con lo sguardo empirico alle cose: la geometria parte da questo ma per costruire un mondo di forme perfette di cui studia le relazioni. Qui risiede un altro errore di certi approcci didattici contemporanei quando – sempre nell’ansia della concretezza – si confonde lo spazio rappresentativo con lo spazio geometrico. Ciò accade quando si pretende che un modo per introdurre alla visione geometrica sia quello di approfondire categorie come quelle di “davanti/dietro”, “destra/sinistra”, “dentro/fuori”, “sopra/sotto”, che sono importanti nello spazio posturale ma prive di senso geometrico. “Sopra/sotto” non è un concetto geometrico, o matematico che dirsi voglia. Esso ha un carattere strettamente antropocentrico. Il “sopra” è diverso dal “sotto” e ad esso irriducibile perché non posso camminare con la testa e quindi le due posizioni sono “per me” non equivalenti. Ciò è ancor più evidente nel “davanti/dietro”: se avessi due occhi dietro la testa davanti e dietro, sarebbero equivalenti (e oltretutto entro certi limiti perché una persona non può camminare indifferentemente avanti o indietro). Peggio ancora per il “destra/sinistra” che indica un privilegio di un lato rispetto all’altro e fa riferimento a una dissimmetria. In geometria, si definisce un orientamento sulla retta o si definisce un verso di rotazione, ma si tratta di distinzioni convenzionali, che non hanno carattere sostanziale come lo hanno nel “mondo della vita”. Definire un’orientazione sulla retta è una mera convenzione che può essere rovesciata senza problemi. Non esiste il “sopra” e il “sotto” di una figura geometrica, non esiste il “davanti” e il “dietro” di una piramide, se non in relazione a un modo di vedere gli oggetti di una persona: proprio qui si vede la differenza tra lo sguardo di una persona nel “mondo della vita” e lo sguardo geometrico.

Le concezioni geometriche hanno un punto di appoggio fondamentale nell’esperienza, ma l’apprendimento della geometria se ne allontana. Si può ritenere che questo sia un fatto negativo, preferire un approccio qualitativo che escluda l’astrazione e il quantitativo e sognare il ritorno a un mondo antecedente Euclide. Ma allora bisognerebbe avere la coerenza di rigettare in toto l’insegnamento scientifico. Quel che è sbagliato e inaccettabile è di far credere che si possa concepire la matematica seguendo un percorso ad essa contrario e di presentarla come qualcosa di diverso. È complesso e delicato seguire la via mediana, tra un’astrazione vuota di senso e una “concretezza” che è contraria all’essenza stessa del procedere matematica. Ma questa è la via da seguire, in un difficile equilibrio, se vogliamo insegnare la matematica, e non oggetto artificioso e inesistente.

mercoledì 22 gennaio 2014

Ecco un esempio di "didattica della paura"

Episodio autentico
Una supplente entra in una classe di seconda primaria e sente alcuni discorsi che i bambini fanno tra di loro:
«Guarda, stai attento perché la maestra non vuole che facciamo le addizioni con le centinaia. Ha detto che fino a quando non decide di spiegarli non possiamo scrivere numeri a tre cifre».
«Lo so. E non si può neppure fare la prova della moltiplicazione perché non ha spiegato ancora la divisione».
«Tu stai attento. Vedrai che si arrabbia perché tu vuoi sempre andare avanti e fare come ti pare».
La supplente invita i bambini a moltiplicare 15 per 7 ma anche se chiaramente lo sanno fare si rifiutano di scrivere il risultato perché è a tre cifre, 105...
La supplente tenta di incoraggiarli, ma a quel punto rientra la maestra titolare, i bambini hanno l'aria terrorizzata; di lei e, di conseguenza, della matematica...
Non c'è bisogno di alcun commento, se non ricordare che coloro che inventano questi vincoli che non è esagerato definire demenziali, sono spesso gli stessi che straparlano di autoformazione, di didattica non trasmissiva, di dare spazio alla creatività del bambino.
Sono coloro che hanno scritto certe "indicazioni" a cui i maestri meno coraggiosi e più conformisti trovano difficile sottrarsi.