Relazione
al Convegno “La formazione degli insegnanti di Matematica. Italia ed Europa a
confronto
Pristem/Storia.
Note di matematica, storia, cultura, vol. 36-37 (a cura di L. Catastini, F.
Ghione, E. Rogora), dicembre 2013, pp. 147-157
La
condizione della matematica nell’insegnamento contemporaneo – non soltanto in
Italia – manifesta un singolare paradosso: mai la materia è stata tanto
detestata e denigrata come noiosa, incomprensibile, esoterica, disumana, e mai
è stata tanto esaltata come imprescindibile, pervasiva, necessaria in ogni
aspetto delle attività lavorative e della vita in generale.
Questa
condizione ambivalente è stata bene descritta anni fa da un giornalista,
Francesco Merlo, che ha scelto decisamente di schierarsi su uno dei due poli,
quello del rigetto:
«… il successo di Harry
Potter non dimostra la crisi della matematica in Occidente, ma al contrario il
suo trionfo. Harry Potter, con il suo straordinario “realismo magico”, è
l’uscita di sicurezza dall’ossessione della matematica dalla quale si può
evadere solo con la letteratura o con il brutto voto a scuola. La matematica,
infatti, è l’anima della Tecnica contemporanea, dal frullatore al frigorifero,
ma anche del parlare, perché persino il più spontaneo e il più incolto parlare
è strutturato in regole rigorose, dentro quella matematica che già il grande matematico
Bertrand Russell, con un’autoironia povera di seguaci, definiva “la sola
scienza esatta in cui non si sa mai di che cosa si sta parlando né se quello
che si dice è vero”». (F. Merlo, “Ma
siamo un popolo di grandi calcolatori”, La
Repubblica, 3 agosto 2007)
Merlo
ha preso una posizione talmente polemica da definire la letteratura e persino
il brutto voto a scuola come la risorsa per sfuggire dall’ossessione della
matematica. Sarebbe facile, e in parte giustificato, liquidare tutto ciò come
un contributo alla nefasta contrapposizione tra le due culture. Ma gli anatemi
non servono a nulla e non è detto che Merlo abbia tutti i torti soprattutto se
si pensa a un certo modo di concepire la matematica e di insegnarla. A ben
vedere, Cartesio non si era espresso in termini molto diversi qualche secolo
fa:
«… non mi stupivo del fatto
che la maggior parte degli uomini d’ingegno e di scienza, dopo esser entrati in
contatto con queste scienze [l’aritmetica e la geometria], le trascurino subito
come puerili e vane, o al contrario si spaventino fin dall’inizio, all’idea di
apprenderle, tanto sono difficili ed intricate. Poiché in verità niente è più
vano dell’occuparsi di numeri vuoti e di figure immaginarie, fino al punto di
sembrare volersi compiacere della conoscenza di simili bagattelle; e niente è
più vano che fissarsi su queste dimostrazioni superficiali, che si conseguono
più spesso per caso che tramite il metodo, e che fanno appello agli occhi e
all’immaginazione più che all’intelletto, fino al punto di disabituarsi all’uso
della ragione; e nello stesso tempo nulla è più complicato che mettere in luce
con un metodo siffatto le nuove difficoltà che sono nascoste dalla confusione
dei numeri. Ma quando, in seguito, mi chiesi da che cosa dipendeva il fatto che
i primi filosofi non volessero ammettere allo studio del sapere coloro che
ignoravano la matematica, quasi che questa disciplina fosse per loro la più
facile e la più necessaria di tutte per formare e preparare gli intelletti a
comprendere altre scienze più elevate, mi convinsi
che essi conoscevano una matematica molto diversa dalla matematica volgare del
nostro tempo» (R. Descartes, Regulæ ad
directionem ingenii, (texte revu et traduit par G. Le Roy), Paris, Boivin,
1933, pp. 30-32.)
Difatti,
la matematica intesa come un occuparsi di “figure immaginarie” o di “numeri
vuoti” si presenta come uno sterile gioco dell’intelletto. E allora è
inevitabile che un’attività vana e il cui senso è oscuro risulti difficile in
quanto priva di interesse. Soltanto ciò che è interessante – che risponde a
problemi importanti e vitali – può indurre a mettere in moto fino in fondo le
capacità intellettive. A che pro’ spendersi per qualcosa che gira a vuoto su
questioni vuote – tanto vale darsi all’enigmistica – o, tutt’al più, serve per
problemi della vita pratica. Come allora, anche oggi non è una “matematica
volgare” che può destare interesse, ma soltanto una matematica che è parte
della cultura e risponde a problemi vitali per noi.
La
matematica, dai tempi di Cartesio e, prima ancora, di Galileo, divenne
interessante perché si presentò come lo strumento principe per comprendere
l’essenza dei fenomeni naturali. Oggi, mentre la matematica è il substrato
della tecnologia che domina la nostra vita quotidiana, sembra che si sia perso
il senso del suo essere parte del sistema di conoscenza dell’uomo, e si
prospetti come una forma di pensiero pratico, qualcosa di “volgare” e, in
definitiva, noioso e assai meno stimolante di un romanzo o persino di un
videogioco (che pure è costruito con la matematica).
È
difficile non rendersi conto che questo esito paradossale è frutto di un modo
sbagliato di concepire la posizione della matematica nella cultura e nel
pensiero e di modalità sbagliate nell’insegnarla. Di certo, gli ultimi decenni
– dominati dall’ansia di rinnovare l’insegnamento della matematica, sia per
adeguarlo alle nuove forme che essa aveva assunto sia per adeguarlo a una
scuola di massa – hanno visto emergere l’idea paradossale che soltanto ora si
inizi a capire come vada insegnata. La matematica è la scienza più antica, le
cui origini affondano nella notte dei tempi. Generazioni e generazioni di
uomini hanno appreso la matematica, l’hanno applicata con grande maestria, l’hanno
fatta progredire e ne hanno trasmesso efficacemente contenuti e metodi. Eppure,
da tempo ragioniamo come se nessuno abbia mai pensato a come insegnarla
efficacemente, come se tutto quanto è stato fatto nel passato sia stato un
errore, e che soltanto oggi si sia iniziato a costruire il modo corretto per
insegnarla ed apprenderla. Se fossimo obbiettivi, a giudicare dai risultati, e
a giudicare dallo scarso interesse, per non dire dall’antipatia, che circonda
la matematica, dovremmo dire esattamente il contrario!
A
ben vedere, le difficoltà hanno indotto a non vedere più chiaro circa la natura
della matematica e, di conseguenza, sul modo corretto di insegnarla. Ci si è
impigliati confusamente nel dualismo tra la matematica vista come scienza
astratta e come pensiero e la matematica vista come attività pratica. Si è
creduto superficialmente che insistere troppo sugli aspetti concettuali della
matematica fosse la causa della sua difficoltà e della repulsione che desta nei
più, non rendendosi conto che tagliare in due la cultura è il massimo errore
dell’epoca moderna e, considerare all’interno della cultura scientifica la
matematica come un’attività pratica non la rende più attraente, ma piuttosto
mediocre e insignificante. Negli anni settanta vi è stata l’orgia
dell’astrazione, della matematica assiomatica, dell’ossessione per la teoria
degli insiemi. Rileggere oggi un libro come Algebra
lineare e geometria elementare di Jean Dieudonné (tradotto da Feltrinelli nel 1970, con una
prefazione di Angelo Pescarini) è come tuffarsi in un passato bizzarro e
lontanissimo. Eppure sono passati soltanto quarant’anni. L’autore intimava di
cancellare ogni figura dai manuali di geometria, proponeva di spazzare via
persino dal linguaggio riferimenti a materie “desuete” come, la “geometria
analitica”, la “geometria proiettiva”, la “trigonometria”, le “geometrie non
euclidee”, e via dicendo. Proponeva un approccio assolutamente astratto e
rigorosamente insiemistico. E il libro veniva presentato allora come l’avvenire
dell’insegnamento della matematica.
Oggi
tutto questo sembra archeologia, spazzato via dal fallimento clamoroso della
“nuova matematica”; anche se il fallimento ha lasciato sul terreno molti
detriti, almeno sul suolo italiano. Difatti, abbiamo conservato la pessima
eredità di mettere dappertutto l’insegnamento della teoria degli insiemi, non avendo
assimilato il principio fondamentale che questa teoria è priva di qualsiasi
interesse e di qualsiasi valore (se non come una stenografia ausiliaria) se non
in relazione alla considerazione della cardinalità degli insiemi infiniti,
ovvero di una tematica che si affaccia poco nella scuola. Inoltre, da quel
fallimento abbiamo tratto una conclusione completamente sbagliata: e cioè che
l’approccio assiomatico fosse sinonimo di un approccio concettuale, mentre era
esattamente il contrario, era lo svuotamento di contenuto degli enti matematici
e quindi l’assenza di senso. Di questo errore è derivata la conclusione che,
per superare gli inconvenienti derivanti dall’approccio astratto, occorreva
andare a un approccio concreto, inteso nel senso più piattamente praticistico
che si possa immaginare. È questa l’origine di quella trovata bizzarra che è la
“matematica del cittadino”, ovvero la matematica che serve nella vita pratica
quotidiana, a tenere il bilancio domestico e i conti bancari, nella
dichiarazione delle imposte e in consimili attività concrete. La “matematica
del cittadino” dovrebbe destare l’interesse per la materia, in quanto più
vicina ai problemi della vita. È una visione della matematica che avrebbe
riscosso il plauso di Benedetto Croce e della sua teoria secondo cui la
matematica serve soltanto a scopi pratici e, per il resto, è un cumulo di
pseudoconcetti privi di senso.
È
davvero una buona risposta alle difficoltà isolare ulteriormente la matematica
dalla cultura e dal pensiero e farne una sorta di prontuario per risolvere i
problemi della vita quotidiana? A giudicare dagli esiti, la risposta è
negativa.
In
linea generale, quel che ha condotto certa didattica della matematica in un
vicolo cieco è stato un atteggiamento sostanzialmente rinunciatario, che
potremmo definire come l’insegnamento
della paura. I concetti e le astrazioni sarebbero difficili e repulsivi? Si
risponde con un approccio pratico, concreto. La matematica appare difficile? Si
abbassa il livello, si indora la pillola, si avanza sempre più lentamente,
magari insegnando alle primarie un numero al mese ed evitando alle scuole
materne persino di menzionare la parola “numero”. Le tecniche matematiche
risultano di difficile assimilazione? Si spezzettano in una miriade di
definizioni, sempre nuove, sempre più numerose, in una casistica minuta.
Gli
errori clamorosi di questo insegnamento
della paura sono evidenti.
L’astrazione
vuota è certamente repulsiva, ma chiunque abbia insegnato davvero sa che non
c’è nulla che desti l’interesse dell’alunno come la sfida intellettuale, il
sollevare problemi concettuali che hanno un senso, perché si ripropongono in
ogni contesto e affondano nelle radici più profonde della psiche. Diceva il
grande matematico Hermann Weyl che la matematica è la scienza dell’infinito. Di
certo, la matematica ha sfidato come nessuna disciplina il tema dell’infinito
ed è riuscita a trattarlo e manipolarlo, se pure non a dominarlo. Non c’è tema
che sollevi più interesse di questo in un ragazzo, e persino (o forse ancor di
più) in un bambino, e che diventa tanto più affascinante quando si riesca a
spiegare che il segreto del successo della tecnologia sta proprio nella
capacità di manipolare efficacemente l’infinito, e introdurre così il principio
della standardizzazione. Ma la tematica dell’infinito non si lega soltanto a
quella della tecnologia, bensì anche a problemi centrali nella riflessione
filosofica e che, fin dai Pitagorici e da Zenone, hanno trovato nella
matematica il loro terreno di elezione. Così si ritorna al legame tra
matematica e cultura che è la chiave per destare l’interesse nella disciplina.
La matematica non può essere isolata dalla cultura senza pagare un prezzo
altissimo in termini di disinteresse: è per questo che nel nostro nuovo libro Pensare in matematica abbiamo
intitolato il capitolo conclusivo “Restituire la matematica alla cultura” (G.
Israel, A. Millán Gasca, Pensare in
matematica, Bologna, Zanichelli, 2012).
Far
comprendere l’importanza della matematica nelle applicazioni e nella pratica
non implica affatto sostenere che la matematica debba essere ridotta a un
“sapere pratico”. Non c’è cosa più sbagliata, e in modo devastante, che
instillare la credenza – magari menzionando a sproposito un Galileo mal
compreso – che la pratica venga prima della conoscenza scientifica e non far
invece capire che la seconda è possibile soltanto in funzione della prima. Chi
più di Leonardo da Vinci fu un grande “applicativo”, creatore e costruttore di
macchine mirabolanti che ancor oggi stupiscono? Eppure Leonardo ammoniva:
«Quelli che s’innamoran di pratica sanza scienzia son come ‘l nocchier ch’entra
in navilio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada. Studia
prima la scienzia, e poi seguita la pratica nata da essa scienzia». Questo
occorre insegnare agli allievi e non il contrario, sottolineando che la
matematica è proprio il nucleo portante di quella scienza da cui nasce la
pratica.
Oggi
va molto di moda sottolineare l’importanza del laboratorio e della pratica
laboratoriale. Nessuno potrebbe seriamente dissentire. Magari le nostre scuole
fossero tutte dotate di laboratori moderni ed efficaci! Ma nel laboratorio si
deve entrare con una base teorica, con delle idee su cosa si vuole andare a
cercare, a verificare o smentire. Non si entra in laboratorio per fare
bricolage, per cercare a casaccio quel che non si sa neppure cosa sia: questo
sarebbe soltanto gioco vanesio (perché anche un buon gioco segue delle regole),
perdita di tempo e diseducazione delle capacità intellettuali. Non è vero che
la scienza si sviluppa attraverso la mera osservazione. Come ha detto il famoso
Nobel per Medicina Albert Szent-Gyorgyi (il padre della vitamina C), con un
fulminante aforisma, «lo scoprire consiste nel vedere ciò che tutti hanno visto
e nel pensare ciò che nessuno ha pensato». E la matematica è la disciplina che
più di ogni altra ha contribuito a pensare ciò che nessuno aveva ancora
pensato, pur osservando i fatti.
Sappiamo
bene quanto una delle cose più odiose e insopportabili della matematica siano
le pratiche calcolistiche ripetitive e meccaniche. Di certo, se si vuole
apprendere a risolvere un’equazione di secondo grado, occorre esercitarsi a
farlo in un numero ragionevole di casi, ma non è possibile ridurre tutto a esercizio senza rendere la materia
insopportabile. Occorre assimilare le tecniche con un apprendistato ragionevole
e non soffocante e concentrare l’attenzione sui problemi. Ma il paradosso è che
concentrare l’attenzione su un approccio pratico riduce troppo spesso i
problemi a esercizi ripetitivi, a tecniche vuote e noiose e quindi a riproporre
il difetto anzidetto. Del resto, che esista un’enorme confusione in merito,
spesso provocata da persone che hanno una conoscenza indiretta e superficiale
della materia, è indubbio. Come altrimenti potrebbe essere definita se non
frutto di ignoranza e confusione la definizione della matematica come scienza procedurale che viene proposta
da alcuni psicologi dell’apprendimento? È la stessa definizione che è stata
addotta per legittimare l’uso dei test nella valutazione delle competenze
matematiche e che ha sollevato sacrosante critiche; tanto che c’è chi è corso
ai ripari dicendo che, anche nei test, occorre proporre una matematica argomentativa, come se
potesse esistere una matematica che non si avvale di argomentazioni...
La
semplicità e la ragionevolezza non sono mai disgiunte. L’idea di alleggerire
l’insegnamento della matematica mediante nuove definizioni che frammentano e
spezzettano i concetti è un altro errore clamoroso. Stiamo assistendo al
sorgere di una casistica degna della peggiore scolastica medioevale.
S’inventano proprietà che non esistono, come la “proprietà dissociativa
dell’addizione”. Si trasformano i diversi approcci didattici in nuove
definizioni, fino a parlare (come in un syllabus ministeriale) della “divisione
per ripartizione” e della “divisione per contenenza” come due forme di
divisione diverse di cui occorrerebbe addirittura dimostrare l’equivalenza...
In realtà, dire che si tratta di casistiche degne della scolastica medioevale è
ingeneroso: uno dei più grandi scolastici, Guglielmo di Occam, enunciò un
principio che occorrerebbe scolpire nella pietra per chi si occupa di didattica
della matematica: Entia non sunt
multiplicanda praeter necessitatem, gli enti non vanno moltiplicati al di
là del necessario.
Un
altra forma degenerativa nella didattica della matematica contemporanea è
rappresentata dallo sviluppo di una teoria delle misconcezioni, che raggiunge livelli parossistici nell’elencazione,
attraverso sterminate tabelle, di tutti i possibili errori in cui possono
incorrere gli alunni, suddividendoli per categorie e tipi. Potremmo anche qui
dire che si tratta di una forma di tardo-scolastica. Ma in realtà si tratta di
peggio, e cioè della credenza che in matematica si possa espungere l’errore
come la gramigna da un campo. È anche questo un portato deteriore della concezione
assiomatica e dell’idea che la matematica sia una scienza puramente
logico-deduttiva, mentre la matematica è una scienza intrisa di intuizione, di
idee che non possono essere ricondotte a un approccio puramente formale ed
esente da “errori”. Quel che non capiscono i teorici delle “misconcezioni” è
che l’errore è il sale della matematica e che questa scienza si costruisce
attraverso vie contorte che sono proprio la fonte della sua vitalità e che
molto spesso la matematica giunge alla verità proprio attraverso l’errore. Se
seguissimo la via delle “misconcezioni” per valutare la storia della matematica
del passato dovremmo catalogare due secoli di storia della fondazione del
calcolo infinitesimale come una sequenza di “misconcezioni”. Eulero, uno dei
massimi matematici di tutti i tempi, ha prodotto una mole sterminata di
risultati di enorme rilevanza basandosi sull’idea bizzarra (una vera
“misconcezione”!) che il calcolo non sia altro che la determinazione del valore
dei rapporti 0/0...
In
linea generale, i vicoli ciechi in cui ci si è impantanati dipendono largamente
dal fatto che si è smarrito l’equilibrio che deve intercorrere tra scopo
formativo e concettuale e scopo pratico nell’insegnamento della disciplina. Si
è insistito troppo sul secondo, al contempo mescolandolo con vizi formalistici
e logicisti (abuso della teoria degli insiemi, matematica come scienza
deduttiva, “misconcezioni”, ecc.), fino a slegare completamente la matematica
dalla cultura e a farne una disciplina strana, a sé, che inevitabilmente
provoca smarrimento e sconcerto. Basta rileggere un brano di Federigo Enriques
per recuperare una visione equilibrata, di buon senso e sorprendentemente
adeguata ai problemi della modernità. Egli parlava dell’«interesse della società a diffondere largamente il
possesso della cultura matematica e ad educare con questa larghi ordini di
cittadini», e così proseguiva:
«Qui si affaccia di solito
la domanda se all’insegnamento debba darsi piuttosto lo scopo formativo o
informativo. Ma il dilemma è mal posto. Se coll’insegnamento informativo si
intende di porgere all’allievo una serie di nozioni da accogliere passivamente
come un dono, questo non ha ragion d’essere in alcun ordine di scuole, perché
il dono di cosa estrinseca non arricchisce il povero che ne ignora l’uso: il
maestro dona soltanto se stesso quando trascina e commuove e comunica qualcosa
della propria vita al suo figlio spirituale.
L’acquisto della cultura
suppone sempre l’apprendimento dell’uso che possa farsene; il quale esige la
partecipazione attiva dell’educato, ed ha un valore formativo.
Il valore formativo delle
matematiche si palesa, non soltanto nell’elevamento e nel potenziamento delle
intelligenze che, traverso l’istruzione classica, vogliono abilitarsi ai più
alti studi, sì anche nei primi gradi dell’educazione dell’infanzia e nelle
classi popolari; perché l’intelligenza matematica è assai precoce. Due
pedagogisti soprattutto hanno lavorato a portare le conoscenze matematiche
nell’educazione del fanciullo, come elemento del suo sviluppo intellettuale:
Pestalozzi e Fröbel. Il primo ammaestra “come Geltrude insegna ai suoi
bambini”, indicando lor di buon’ora la consapevolezza dei rapporti di numero e
misura, che essi debbono apprendere presto e con chiarezza. Il secondo, già nei
suoi primi doni, nei giuochi e negli esercizi dei suoi giardini, offre ai
fanciulli la visione delle figure geometriche e delle loro simmetrie, e li
interessa ad osservazioni via via più difficili, con una progressione metodica
che risponde ad un preciso disegno educativo. Per le scuole infantili come per
le popolari, è soprattutto vero ciò che si osservava innanzi, che l’indirizzo
formativo non si disgiunge dall’utilitario, che crea coll’interesse l’accoglimento delle cose insegnate» (F.
Enriques, Le matematiche nella storia e
nella cultura, Bologna, Zanichelli, 1938 (rist. 1986)).
Se
si parte dall’acquisizione del fatto che conoscenza e utilità non possono
essere contrapposte, e tantomeno la prima può essere considerata come un
sottoprodotto della seconda, o addirittura come un aspetto marginale, tutto
diventa più chiaro e semplice. Anche le tecniche, di per sé noiose e repulsive,
possono essere rese accettabili e interessanti se rispondono a problemi e a
tematiche che hanno un valore e un senso generale.
Naturalmente,
occorrerebbe qui precisare in dettaglio, e con indicazioni concrete, che cosa
significhi un insegnamento della matematica basato su un approccio culturale,
che “restituisca alla matematica alla cultura”. Questo non può evidentemente
essere fatto nello spazio ristretto di un articolo, ed è precisamente il
compito che ci siamo preposti nel libro già citato, Pensare in matematica.
Ci
limiteremo a sottolineare una questione di importanza centrale. La matematica
si è sviluppata storicamente attorno a due temi: quello del numero e quello
della forma che hanno dato luogo rispettivamente all’aritmetica e alla
geometria. Si tratta di due “porte d’ingresso” alla matematica che seguono
percorsi diversi, che la matematica moderna ha parzialmente conciliato ma che
conservano un’autonomia di fondo. Questo fu compreso in modo profondo dai Greci
antichi che scoprirono le difficoltà e i paradossi che nascono nella
rappresentazione delle grandezze geometriche mediante numeri e che decisero di
evitarli affrontando lo studio della geometria in modo sintetico, e cioè senza
numeri. Naturalmente il prezzo che veniva così pagato era in termini pratici:
la geometria sintetica non si prestava ad essere uno strumento per lo studio e
la descrizione dei fenomeni fisici. La sintesi tra numero e geometria,
realizzata attraverso la creazione della geometria analitica, ha aperto la strada
alle applicazioni della matematica e al suo ruolo centrale nella fisica. Resta
il fatto che, dal punto di vista concettuale, il continuo geometrico e il
continuo numerico sono due cose diverse e, in fin dei conti irriducibili.
Trattasi di una questione sottile e delicata che deve essere progressivamente
affrontata nell’insegnamento della matematica, conservando una certa autonomia
tra i due punti di vista e preservando un ruolo all’approccio geometrico
sintetico, che si lega in modo profondo alla visione intuitiva dello spazio.
Pertanto,
è fondamentale conservare l’ingresso alla matematica per le due porte distinte
dell’aritmetica e della geometria, introducendo in modo progressivo e accurato
il loro rapporto. Ne discende che l’approccio geometrico-sintetico deve
conservare un ruolo importante nell’insegnamento. Va sottolineato, al riguardo,
che la disciplina matematica che offre la gamma di problemi più variata, con
una gradazione finissima di difficoltà, è proprio la geometria.
Al
contempo, sarebbe profondamente errato far credere che lo sguardo della
geometria si identifichi completamente con lo sguardo empirico alle cose: la
geometria parte da questo ma per costruire un mondo di forme perfette di cui
studia le relazioni. Qui risiede un altro errore di certi approcci didattici
contemporanei quando – sempre nell’ansia della concretezza – si confonde lo
spazio rappresentativo con lo spazio geometrico. Ciò accade quando si pretende
che un modo per introdurre alla visione geometrica sia quello di approfondire
categorie come quelle di “davanti/dietro”, “destra/sinistra”, “dentro/fuori”,
“sopra/sotto”, che sono importanti nello spazio posturale ma prive di senso
geometrico. “Sopra/sotto” non è un concetto geometrico, o matematico che dirsi
voglia. Esso ha un carattere strettamente antropocentrico. Il “sopra” è diverso
dal “sotto” e ad esso irriducibile perché non posso camminare con la testa e
quindi le due posizioni sono “per me” non equivalenti. Ciò è ancor più evidente
nel “davanti/dietro”: se avessi due occhi dietro la testa davanti e dietro,
sarebbero equivalenti (e oltretutto entro certi limiti perché una persona non
può camminare indifferentemente avanti o indietro). Peggio ancora per il
“destra/sinistra” che indica un privilegio di un lato rispetto all’altro e fa
riferimento a una dissimmetria. In geometria, si definisce un orientamento
sulla retta o si definisce un verso di rotazione, ma si tratta di distinzioni
convenzionali, che non hanno carattere sostanziale come lo hanno nel “mondo
della vita”. Definire un’orientazione sulla retta è una mera convenzione che
può essere rovesciata senza problemi. Non esiste il “sopra” e il “sotto” di una
figura geometrica, non esiste il “davanti” e il “dietro” di una piramide, se
non in relazione a un modo di vedere gli oggetti di una persona: proprio qui si
vede la differenza tra lo sguardo di una persona nel “mondo della vita” e lo
sguardo geometrico.
Le
concezioni geometriche hanno un punto di appoggio fondamentale nell’esperienza,
ma l’apprendimento della geometria se ne allontana. Si può ritenere che questo
sia un fatto negativo, preferire un approccio qualitativo che escluda
l’astrazione e il quantitativo e sognare il ritorno a un mondo antecedente
Euclide. Ma allora bisognerebbe avere la coerenza di rigettare in toto
l’insegnamento scientifico. Quel che è sbagliato e inaccettabile è di far
credere che si possa concepire la matematica seguendo un percorso ad essa
contrario e di presentarla come qualcosa di diverso. È complesso e delicato
seguire la via mediana, tra un’astrazione vuota di senso e una “concretezza”
che è contraria all’essenza stessa del procedere matematica. Ma questa è la via
da seguire, in un difficile equilibrio, se vogliamo insegnare la matematica, e
non oggetto artificioso e inesistente.
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