mercoledì 17 settembre 2014

La leggenda dei nativi digitali che sarebbero più smart è soltanto una bufala

Mio padre ottenne la patente a cinquant’anni: inutile dire che non guidò mai bene, non fu mai un “nativo automobilistico”. La faccenda dei “nativi digitali” è simile: se s’inizia a trafficare con computer, tablet e smartphone molto presto si acquisisce una familiarità che è preclusa agli “anziani”. Ma è proprio così? Nei fatti, l’analogia è fallace, perché la guida di un’automobile è un fatto prevalentemente fisico, che coinvolge azioni assai elementari e limitate in numero. Al contrario, gli apparati digitali sono altamente stratificati e offrono un’enorme molteplicità di attività che è tutt’altro che facile sfruttare fino in fondo. Chi osservi il comportamento dei “nativi digitali” che agiscono solo sulla base dell’intuizione si renderà facilmente conto che, in realtà, usano una minima parte delle facoltà degli apparecchi, e si limitano per lo più a trafficare con la messaggeria telefonica, con videogiochi semplici, non hanno la minima idea di come sfruttare un programma informatico sofisticato e, al contrario del caso automobilistico, restano molto al di sotto delle capacità di un adulto.
Questo va detto per sfatare la leggenda metropolitana dei “nativi digitali” dietro cui si trincerano coloro che – con il tipico servilismo giovanilista – si sbracciano a dire che il mondo è cambiato, che la “vecchia” cultura è ormai obsoleta, e che bisogna consegnare alle giovani generazioni digitalizzate il compito di costruire una nuova cultura – e di conseguenza, un nuovo modo di apprendere – come risultato spontaneo dell’accumulazione di informazioni in rete. Come se la conoscenza potesse essere identificata con l’informazione…
Ma quel che colpisce nella demagogia giovanilista dei “nativi digitali” è l’assenza di una riflessione sulle diverse modalità implicate nell’uso di mezzi diversi. Eppure, in ambito pedagogico, riflessioni del genere sono state fatte ed è davvero curioso che si continui a ripetere che i giovani hanno perso la capacità di concentrazione senza riflettere sulle cause di questa deriva, che non è un fatto “naturale” bensì qualcosa che noi adulti stiamo irresponsabilmente fabbricando.
È facile capire che lo strumento di cultura e di apprendimento che richiede il massimo di attività soggettiva è il libro: i suoi caratteri sono immobili, il senso e le immagini del testo vanno estratte con un grande sforzo di ragionamento e di fantasia. Il libro richiede un impegno attivo massimo. Si è imputato alla televisione l’annullamento di questa attività soggettiva, e ciò è in parte vero, anche se la televisione, come il cinema, offre comunque immagini preassegnate su cui si può esercitare liberamente la fantasia e l’interpretazione. Ben altra cosa è il tablet che – come lo smartphone, e molto più del computer – ha un’autonomia soggettiva enorme. Il tablet “ti viene addosso”. Basta sfiorarlo e succedono mille cose indipendenti da te e inattese. Se l’utente non possiede un grado di autodifesa molto alto e non è capace di controllare fino in fondo la macchina, se non ha la maturità sufficiente per sfidare l’“autonomia” della macchina imponendo il dominio della propria intenzionalità, può diventarne un puro e semplice burattino. Ed è facile costatare che tanti “nativi digitali” cadono preda del tablet in un regime di completa impotenza. Un aspetto fondamentale nella maturazione del giovane è lo sviluppo della capacità di creare narrazione. Se il libro è lo strumento per eccellenza per stimolare questa capacità e se il cinema e la televisione lo fanno in misura minore, ma non nulla, il tablet sgretola qualsiasi tessuto di attività autonoma, imponendo il proprio, e impedisce la creazione della narrazione.
Non si tratta certo di proscrivere uno strumento straordinario, e di assumere atteggiamenti luddisti, ma di comprendere che ogni strumento va usato a tempo debito e quando si è capaci di farne un uso ottimale. L’apprendimento mediante tablet può essere una devastante follia nelle menti di chi ancora non riesce a controllare un simile strumento e non ha costruito la capacità di concentrazione e di narrazione di sé.

Si dimentica che in un’intervista del 1996 Steve Jobs dichiarò di essere giunto alla «conclusione inevitabile che il problema dell’educazione non può essere risolto dalla tecnologia. Quel che non funziona nell’educazione non può essere corretto con la tecnologia». Sono passati anni e gli interessi economici hanno spinto nel dimenticatoio quelle importanti ammissioni. Ma è di un paio di anni fa un servizio del New York Times che spiegava come nelle scuole esclusive della Silicon Valley, quelle frequentate dai figli dei grandi manager delle ditte informatiche, non si tocca un computer, un tablet o uno smartphone prima delle ultime classi scolastiche. Si usano soltanto lavagne e gessi colorati, oggetti materiali per apprendere a esercitare la fisicità e la fantasia. Uno di quei manager ha affermato senza mezzi termini che l’idea che un tablet possa aiutare il proprio figlio ad apprendere a leggere o a fare operazioni aritmetiche è semplicemente ridicola. È da pensarci bene prima di buttarsi a capofitto in una delle ennesime trovate che nascondono con ideologie sgangherate corposi interessi economici, con l’unico effetto di spianare a zero le capacità di concentrazione già esilissime dei nostri poveri “nativi digitali”.
(Giorgio Israel – Il Foglio - 17 settembre 2014)